Tradizionalmente molto agguerrito sul fronte delle Retrospettive storiche – da sempre un fiore all’occhiello del Festival di Berlino – non mancano, pur in tristi tempi di pandemia, delle proposte molto interessanti nella sezione dei Berlinale Classics.

Quest’anno sette sono le opere in cartellone, tra cui, la versione restaurata di Mamma Roma (1962), il secondo film di Pier Paolo Pasolini con una indimenticabile Anna Magnani, che cade, non a caso, nel centenario della nascita del grande intellettuale di Casarsa. Ma non è di questo film estremamente noto e non sempre apprezzato che vogliamo parlane né di Notre Musique (2004) di Jean-Luc Godard, altro grande maestro del cinema moderno. Ci piace, invece, segnalare due opere tanto diverse e lontane nel tempo e nello spazio quanto legate a due città acquatiche sui delta di due grandi fiumi del mondo, e cioè Amburgo e Shanghai.

Partiamo dal lontano passato e da quell’incredibile fucina di esperienze politico-estetico-culturali che fu la Repubblica di Weimar (1919-1933) prima di essere assassinata dall’ascesa di Hitler. Una perla, tra le tante, di questo straordinario momento cinematografico – dall’Espressionismo alla Nuova Oggettività – è il film muto Brüder (Fratelli) di un regista, Werner Hochbaum (1899-1946) il cui nome pochi ricordano ma che per diversi storici potrebbe appartenere al Pantheon dei massimi registi classici di lingua tedesca come Murnau, Lang, Lubitsch, Pabst o Ophüls.

Figlio di un ufficiale di marina, Hochbaum inizia prima come recensore cinematografico sul quotidiano della Partito socialdemocratico e poi passa dietro la macchina da presa nel 1929 con questo debutto d’eccezione. Si tratta di uno dei più riusciti esempi di «cinema proletario» che sul modello della grande esperienza dei maestri sovietici, voleva esprimere anche in Germania una coraggiosa proposta politica in un linguaggio filmico poco convenzionale, diciamo anticipatore del neorealismo.

Girato con attori non-professionisti, sui luoghi degli eventi, prodotto dallo stesso regista con l’aiuto del Sindacato dei portuali, Brüder ricostruisce uno episodio vero accaduto durante il grande, lungo sciopero nel porto di Amburgo del 1896/7 (ma rivolto all’attualità del 1929) dove si scontrano gli opposti destini di due «prolet», un fratello scioperante ed uno poliziotto – con una conclusione molto amara della storia. Oltre la sua qualità, si tratta dell’unico esempio di «cinema proletario» di parte socialdemocratica; infatti, pur mostrando spirito rivoluzionario, non venne realizzato in ambito comunista, come ad esempio altre importanti opere della stessa tendenza, tipo Mutter Krausens Fahrt ins Glück (Il viaggio di mamma Krause verso la felicità, sempre del 1929) di Phil Jutzi o Kuhle Wampe (1932) di Slatan Dudow (e Bertolt Brecht).

Facciamo un lungo salto spazio-temporale passando nella Cina dell’inizio del nuovo millennio con Lou Ye e la sua opera seconda che – altro punto di contato con il film precedente oltre all’ambientazione sull’acqua – era stato coprodotto dai tedeschi. Capolavoro emblematico della cosiddetta «sesta generazione» dei registi cinesi contemporanei, quella che si è voluta contaminare con il cinema occidentale, Suzhou River (2000) racconta in un neo-noir ricco di voluti echi hitchcockiani (da La donna che visse due volte a La finestra sul cortile), una tragica storia d’amore, di morte e di fantasmi in una città sporca e piovosa, quella natale del suo autore, Shangai.

Protagonista è un operatore video ossessionato dal ricordo di una donna del quale non si vede mai la figura salvo a tratti le mani. L’uomo narra in prima persona la propria storia e al tempo stesso quella di un corriere motociclista e piccolo truffatore, insieme ai destini delle donne da loro amate, possedute e perdute (entrambe interpretate dall’attrice e cantante Zhou Xun). Fortemente osteggiato dalla censura che non ne ha permesso l’uscita in Cina, Suzhou River si contraddistingue per la straordinaria carica di romantiche emozioni e da un fascino quasi irripetibile, dato da un reiterato uso stilistico della soggettiva e della macchina a mano. Purtroppo, Lou Ye, sempre fortemente osteggiato nel suo lavoro in patria, non è, poi, più riuscito ad eguagliare la bellezza «malata» di questo film.