«It’s a beautiful night for Lampedusa» mi dice Nabil sorridendo, «yes, it’s a beautiful night» gli rispondo senza riuscire a distogliere lo sguardo dal mare: è docile e mansueto, molto più simile a un lago, il grande lago Mediterraneo. Nabil si allontana e va a parlare con alcuni pescatori, io lo aspetto sulla spiaggia vicina.

Davanti ai miei occhi c’è la notte più nera, una di quelle notti che hanno il potere di tramutare il mare in inchiostro. Nell’attesa che ritorni Nabil chiudo gli occhi e provo a immaginare di essere un clandestino che sta partendo per Lampedusa, respiro la brezza marina a pieni polmoni per prendere coraggio e nella mente si affollano le immagini degli sbarchi, dei riflessi dorati delle coperte termiche, dei corpi che vengono cullati e riportati a riva dalla risacca, di tutti quei sacchi neri messi in fila sulla spiaggia. Penso a un motore che scoppia, a un’esplosione improvvisa, al fuoco che sull’acqua, a uno scafista armato senza scrupoli, alle urla di una giovane madre. Il cuore comincia a battermi forte e la testa non comanda più le gambe. Riapro gli occhi e guardo per terra: sabbia, solo soffice sabbia bianca, che per fortuna mi separa dal mare.

La notte è buia qui nel porto di Zarzis e la luna da sola non basta a far luce su questa distesa di acqua e anime. Impossibile sapere con precisione quanta gente sia annegata in questo immenso lago. Fortress Europe stima che siano 19.372 persone scomparse nel tentativo di oltrepassare la frontiera europea negli ultimi 25 anni, di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011, almeno 590 nel 2012 e già 695 nel 2013. Sono numeri da capogiro. Come se un’intera cittadina fosse sprofondata all’improvviso.

È da giorni ormai che non riesco a pensare ad altro, scandisco lentamente le parole nella mia mente e non vi trovo alcuna logica: trafficante di Esseri Umani. Ma forse l’ho ripetuta così tante volte che non ha più senso. Ma come si trafficano gli esseri umani? Come la merce? Come le bestie? Provo a chiedere in giro e nei bar, ma nessuno sa rispondere. Molti fanno finta di non sapere di cosa io stia parlando. Da Zarzis partono regolarmente i barconi clandestini per l’Italia, ma sembra che nessuno se ne sia mai accorto.

Spunta fuori un trafficante, o meglio il nome di un trafficante, si fa chiamare Sagon, come il cattivo di un vecchio telefilm messicano. Riesco ad incontrarlo dopo tre giorni passati in una villa semi-diroccata, utilizzata per ospitare i “clandestini” in attesa della partenza. Ci incontriamo in una scuola abbandonata lì vicino, nella periferia di Zarzis. L’ambiente è polveroso, e l’aria viziata mi riempie le narici. Trovo Sagon seduto al buio, cappuccio tirato su e faccia rivolta verso il muro. Un debole fascio di luce entra tra le lamiere che sostituiscono il tetto. Non c’è molta luce e non mi è concesso di vederlo in faccia. Ha di fianco a sé due lattine di birra calde, la prima, vuota ancor prima di iniziare.

Perché sei un trafficante? Mi risponde che non ha un lavoro vero e che non vuole rubare. Asseconda in un certo qual modo la richiesta del mercato clandestino, tutti vogliono partire ma sono in piccoli gruppi, 2 o 3 persone al massimo. Il suo compito è quello di raggrupparli in una casa e aspettare che diventino abbastanza da poterli vendere al passeur.

Chi è il passeur? La parola è traducibile con «trafficante», è colui che nella rete del traffico dei clandestini occupa un gradino più in alto, ma non tanto alto da essere un Big Boss. E chi sono i Big Boss? Sono coloro che manovrano i fili dell’immigrazione clandestina, gente ricca, molto ricca, che può permettersi di corrompere la polizia e ricavare degli extra trafficando in Esseri Umani. Persone intoccabili, colletti bianchi, spesso partner commerciali dell’Europa che prendono voli charter a loro piacimento o viaggiano in business class sopra le teste dei clandestini che mandano a morire. Sagon aggiunge che una nave può costare sui 100 mila dinari (circa 45 mila euro), ma nel momento in cui salpa dal porto ne vale il doppio. Insomma un guadagno del 100% per il Big Boss senza alcuno sforzo. L’utile di un trafficante come Sagon, invece, è di circa 180 euro per clandestino.
Chiedo se ci sono ancora barconi che partono per la Sicilia e lui mi risponde che non è più semplice come due anni fa. Nell’immediato post Ben Alì, infatti, questa cosa avveniva alla luce del sole. I nomi dei trafficanti erano di dominio pubblico e ben visti dalla popolazione locale, alcuni di loro erano gli ex poliziotti corrotti del regime che, dopo decenni di soprusi, prendevano il largo per paura di ritorsioni. Scopro con non poca meraviglia che ora è più sicuro partire dalla Libia. Una volta a destinazione con un po’ di bravura e una buona dose di fortuna potrà fingersi algerino o marocchino, evitando il rimpatrio e l’arresto. «Ma è pericoloso perché i libici mentono, sono senza pietà. Obbligano i migranti a salire sulle vecchie navi e se qualcuno di loro ci ripensa all’ultimo minuto lo ammazzano, e se qualcuno fa la spia si può considerare un uomo morto».

E allora perché la gente parte? Mi risponde, alzando la voce, di non credere che la vita qui è bella perché c’è la spiaggia, le palme, il sole… «Hai visto quanta gente c’è per strada, senza un lavoro? Qui non c’è niente da fare. L’alternativa è rubare e andare in carcere. Ecco perché vanno via». Chiedo anche che tipo di persone ci sono tra i suoi “clienti”. Impossibile tracciare un profilo del “clandestino tipo”, Sagon mi risponde che c’è gente di ogni estrazione sociale: disoccupati, criminali, studenti, commercianti, donne incinta.

È mai successo che un barcone organizzato da lui affondasse? Fiero della sua presunta infallibilità mi risponde di no, «non è mai affondata nessuna delle mie barche», me lo dice come se fosse una cosa che si potesse prevedere e quindi evitare. «Una sola volta – precisa l’uomo – un barcone partito da Zarzis è stato speronato e affondato dalla polizia tunisina». È vero, lo lessi anche io tempo fa: Rais Gantri dirà così al quotidiano La Repubblica: «Mentre eravamo in navigazione verso Lampedusa, una motovedetta tunisina ci ha intimato di fermarci, cosa che abbiamo fatto, ma il comandante ha fatto una manovra e ci ha speronato, spezzando la nostra barca in due. Gli ufficiali di bordo ridevano perché alcuni di noi non sapevano nuotare. Ci guardavano e ridevano invece di tirarci su». Il bilancio sarà di 40 vittime.

La disponibilità di Sagon alle mie domande comincia a scarseggiare, e dopo alcune risposte monosillabiche decido di chiudere l’intervista chiedendogli cosa pensa delle frontiere: «Non capisco la domanda», risponde, provo a ripeterlo ma senza risultato. E cosa pensa invece Sagon del naufragio di Lampedusa? Di tutti i morti che ci sono stati in mare? «Che Allah li abbia in gloria» è la sua risposta, secca, precisa, immediata. Come se si aspettasse questa domanda fin dall’inizio dell’intervista.

Che Allah abbia in gloria te Sagon, penso, ma non lo dico. Che possa avere pietà di te e di tutti i miei e i tuoi connazionali che non hanno alcun rispetto per la vita altrui. Pietà della gente che lucra sulle spalle dei più deboli. Pietà delle anime in pena che rischiano la propria vita pur di poterla vivere.