In mezzo a tutti gli slittamenti percettivi e sensoriali che promette il brasiliano Cildo Meireles con le sue installazioni che allontanano l’indifferenza e bandiscono il distacco del «testimone», resta un’unica certezza: lui non ama le etichette e rifugge da qualsiasi domanda che cerchi di inchiodarlo dentro un binario prestabilito.

Soprattutto, Cildo manifesta una notevole allergia alla riduzione del suo lavoro dentro i confini del concettualismo. Nonostante riconosca il suo debito verso i maestri del Novecento e il neoconcretismo brasiliano, Meireles è anche il primo a discostarsene con una consapevolezza critica acuta, scomoda. «Amo parlare di arti plastiche, piuttosto che visive. Non necessariamente tutto è da ricollegare alla vista e al pensiero; esistono i sensi e quindi gli odori, i suoni, le superfici tattili, il gusto… L’arte deve coinvolgere il corpo, è questa per me la sola traduzione possibile del neoconcretismo. Una dimensione sensoriale e sinestetica cha appartiene di più alla nostra cultura. Il modernismo brasiliano aveva radici troppo europee, troppo cool…».

Allora, le sue installazioni – molte delle quali politicissime – «sono soprattutto poetiche, perché è di questa materia che è fatta l’arte e non mi piace che le persone le vedano soltanto attraverso gli occhi dell’ideologia». Eppure Meireles non ha mai ignorato tematiche forti come il controllo dell’informazione sotto la dittatura, il sistema di produzione e furto nell’ambito delle amministrazioni colonialiste, il processo di inarrestabile spoliazione dell’«altro da sé» e delle tradizioni che restituiscono una identità. Infine, Cildo riconosce l’attitudine tutta umana allo sterminio: nel lavoro anni Ottanta Olvido, una tenda conica dei nativi americani è ricoperta di banconote, circondata da migliaia di ossa bovine e delimitata da una «frontiera» di candele in stile cimiteriale. Trova però noioso che un visitatore entri in una mostra e sia costretto a leggere testi esplicativi per comprendere ciò che ha davanti, che sta vivendo in quel preciso momento. Meglio far parlare la pelle. La seduzione dei sensi ha qualche carta in più da giocare e, soprattutto, è universale. «Mi piace pensare che l’arte sia simile a un rapimento – confessa sorridendo – qualcosa che mi spinga a uscire dal mio tempo quotidiano, dalle preoccupazioni di ogni giorno per sperimentare uno stato diverso…».

Rimane il fatto che alcune sue opere, sebbene incitino lo spettatore alla prova diretta con il proprio corpo, a entrare nell’agone assumendosi il rischio, siano una istigazione a un allarme permanente. «Siamo nel regno della fear, la paura», sostiene l’artista. Come dimostra bene quel pavimento di vetri frantumati, interrotto da ogni sorta di barriera, un labirinto (Através) dove bisogna camminare con i sensi potenziati per evitare di ferirsi. I bambini, infatti, non sono ammessi. E gli adulti sono avvertiti del pericolo da minacciosi cartelli.

Cildo Meireles (Rio de Janeiro, 1948) è arrivato in Italia, a Milano, per la sua personale presso l’HangarBicocca, l’istituzione della Pirelli: un percorso suggestivo, immerso nel buio, in cui dodici installazioni diverse – in grande e piccola scala – aiutano il visitatore a uscire da sé, a sperimentare altri mondi possibili. Curata da Vicente Todolì e visitabile fino al 20 luglio, la mostra dell’artista brasiliano è una di quelle occasioni che induce a prendere un treno al volo, senza pensarci troppo su, per raggiungere il nord.

Nessun pentimento: anche perché Milano, in vista della fiera Miart che aprirà i battenti oggi (per proseguire fino al 30), pullula di esposizioni degne di nota. Si va da un «classico» come Gustav Klimt ospitato a Palazzo Reale al concettualissimo argentino David Lamelas proposto da Lia Rumma. Senza contare l’amazzone del martirio, la guatemalteca Regina José Galindo al Pac e la fresca apertura della retrospettiva dedicata a Piero Manzoni (Palazzo Reale).

Quest’ultima non è sfuggita a Cildo Meireles: fan totale dell’artista lombardo, ha invitato tutti a visitare la mostra del «collega» morto d’infarto a soli trent’anni, nel 1963. E come ritratto di se stesso ha scelto – esposto all’HangarBicocca – quel rovesciamento acrobatico del corpo sul piedistallo manzoniano Socle du monde che è una rivisitazione in forma di readymade vivente delle provocazioni dell’altro e un intervento ludico sull’ambita «trasformazione magica» della persona. Una promessa di metamorfosi che forse lo reimmergeva nella sua infanzia, quando girava per il Brasile al seguito di suo padre, impiegato dell’Indian Protection Service, istituzione volta alla difesa delle popolazioni indigene. E la mostra si apre proprio con un lillipuziano cubetto (9 mm per lato), Cruzeiro do Sul, realizzato con pino e quercia, due alberi sacri agli indiani Tupi perché, secondo la leggenda, dallo sfregamento dei due legni si originava la divinità dei tuoni. Siamo nel campo di quello che Meireles chiama «humuliminimalism», la dimensione del piccolissimo che ha la medesima dignità della scala monumentale. «Il mio – spiega – è un nuovo umanesimo. L’arte non può riplasmare il mondo, ma può modificare la nostra posizione all’interno di esso. Accrescere la coscienza per cambiare il punto di vista».

Ironico sempre, Meireles è capace di «giocare» con icone come i soldi e la Coca-Cola, infrangendo il loro potere d’acquisto con frasi virali che si propagano: da quello storico slogan Quién mató a Herzog?, che transitava liberamente nel circuito monetario (era impresso sulle banconote) mentre i giornali erano sottoposti a censura e l’informazione indebolita, fino alle bottigliette della Coca Cola con messaggi clandestini impressi sul vetro. Alla berlina, poi, finisce anche l’America tout court. Lui la rappresenta così: scritta con tre «k», in memoria del Ku Klux Klan, con un pavimento fatto di uova («di Colombo», dice) su cui è penoso camminare, e un soffitto dal quale penzolano migliaia di proiettili. «È il mio riassunto di un continente».