Gli stand elettorali vengono smontati nelle strade di Istanbul, scatoloni con i volantini e i manifesti portati via dagli attivisti che in questi giorni si sono adoperati per fare campagna. Restano le migliaia di bandiere colorate che adornano le strade e le gigantografie dei candidati, aggrappate a ringhiere e palazzi, talvolta attorcigliate o portate via dal vento che in questi giorni spira forte sul Bosforo.

Un clima capriccioso che alterna tuoni e lampi a squarci di sole, imprevedibile come l’esito delle urne. Alle 18 di ieri è entrato in vigore il silenzio elettorale, oggi quasi 60 milioni di cittadini si recheranno alle urne, dalle 8 alle 17.

I primi risultati per la carica di presidente della Repubblica sono attesi già per le otto di sera, mentre per il parlamento ci vorrà un po’ più di tempo.

Ancora una volta le grandi città giocheranno un ruolo fondamentale in queste delicatissime elezioni. In palio non ci sono solo i prossimi cinque anni di legislatura, ma il futuro del paese e della sua democrazia, il parlamento e le sue prerogative, i diritti civili, politici ed economici, il lavoro.

A Istanbul, la città fatta di cento città, si giocano 98 seggi su 600 disponibili, praticamente un sesto del parlamento. Ogni distretto si è vestito dei colori della sua identità politica, a volte ostentata come nella rossa e repubblicanissima Kadikoy o come nella Uskudar bianca, arancio e azzurra fedelissima del Reis Erdogan (ma l’anno scorso al referendum lo tradì). Talvolta è un calderone di volti e simboli di partito, come nel melting pot di Bakirkoy.

E nelle città, per tastare il polso alla gente c’è un luogo, speciale perché è parte della quotidianità di moltissimi indipendentemente dalla provenienza sociale, la ricchezza, l’appartenenza politica.

Sono i çay bahçesi, i giardini del tè, luoghi non sempre verdeggianti dove i turchi consumano la bevanda che amano più di ogni altro popolo al mondo. Li trovi a fianco delle moschee di Eyup come nelle commerciali e patinate vie di Nisantası, nei quartieri fabbrica di Merter come sul lungomare rétro di Beylerbey.

Aggrappati ai loro bicchieri bollenti, magari con una sigaretta in mano, qui i turchi parlano di tutto, dal calcio al prezzo delle cipolle, degli amori e dei dolori. Ieri sera, con il fiato un po’ sospeso, parlavano soprattutto di politica.

I fronti, naturalmente, sono divisi. I sostenitori di Erdogan manifestano la certezza di chi non ha mai perso un confronto elettorale in 16 lunghi anni. Confidano in colui che è la loro certezza, che ha tappezzato le vie di manifesti che inneggiano al guçlu lider, il leader forte.

Contemplano il loro paese che cambia e che può farlo solo in una direzione, quella indicata con l’indice dal Reis nei martellanti spot elettorali di questi giorni in tv. Erdogan ha chiuso la campagna elettorale a Istanbul conscio del tesoro di voti che porta in dote. L’ha fatto con una campagna itinerante a Esenyurt, Beylikduzu, Avcılar, Kuçukçekmece ed Eyupsultan, le sue roccaforti.

Ha usato spazi più piccoli e farciti di un popolo inneggiate, dove cammina al sicuro. E forse proprio in questi fortini elettorali non stava solo ostentando certezze, ma ne cercava altrettante. E ha concluso i comizi con la promessa, per oggi, di un sonoro «schiaffo ottomano» ai suoi rivali.

Le opposizioni, galvanizzate, sperano. Può suonare naïf, ma non è poco fare opposizione quando centinaia di migliaia di persone vengono zittite, incarcerate, fatte sparire. L’Associazione per i diritti umani (Ihd) e la Fondazione per i diritti umani di Turchia (Tihv) pubblicano alla vigilia del voto un rapporto sulla violenza elettorale e gli attacchi che i partiti e i loro militanti hanno subito in queste settimane: 93 aggressioni contro l’Hdp, 12 contro l’Iyi Parti, 12 contro il Chp, 8 contro Saadet, 2 contro l’Akp. I numeri della repressione.

Ma la speranza si alimenta con i fatti. Il candidato Chp Ince riempie le piazze come mai si era visto negli ultimi tempi. A Maltepe, quartiere occidentale, il partito repubblicano ha rivendicato il proprio ruolo con uno sterminato comizio finale da 5 milioni di persone.

L’Hdp ha chiuso la propria campagna a Smirne, nella roccaforte del kemalismo, segno forse di nuove collaborazioni e simpatie, di tempi che cambiano, magari in meglio. Anche se poi torni a Van e scopri che il comizio Hdp lì è stato assaltato dalla polizia: segno che c’è ancora, più che mai, un dovere di resistenza.

Nei giardini del tè in cui suonano le musiche dell’est curdo si guarda Demirtas che chiude la campagna in video, lontano fisicamente dal suo elettorato, ma vicino nei cuori. Ma se accanto al suo nome compare anche quello di Ince, significa che qualcosa sta cambiando. Se i repubblicani di Fenerbahçe ammettono di voler votare Hdp almeno per il parlamento, significa che il cambiamento è in moto.

Se infine dagli schermi accesi nei giardini del tè arrivano le parole del ministro degli interni Soylu, un falco dell’Akp, che implora i giovani Chp di votare per il proprio partito e non per «altri», significa che domani nelle urne qualcosa ribolle. Saranno elezioni imprevedibili, come il tempo capriccioso di Istanbul.