Mentre la popolazione umana è impegnata in una difficile opera di contenimento del Covid 19, altre due malattie virali, influenza aviaria e peste suina africana, stanno colpendo gli animali. Non si erano ancora estinti in Italia i focolai di influenza aviaria che hanno portato in tre mesi all’abbattimento di 14 milioni di polli, quando a inizio gennaio è stato lanciato l’allarme peste suina africana tra i cinghiali che vivono nei boschi tra Piemonte e Liguria. L’Italia è l’ultimo paese, in ordine di tempo, ad essere interessato da questa epidemia che colpisce i cinghiali e i loro discendenti domestici, i maiali, producendo effetti devastanti negli allevamenti intensivi.

CI SI CHIEDE COME IL VIRUS della Psa sia arrivato nei boschi dell’alessandrino, se per un contatto diretto tra cinghiali per continuità del fronte epidemico, oppure come conseguenza di attività umane (abbandono di rifiuti contenenti carne suina o di cinghiale contaminata). Tutte le istituzioni sanitarie e gli organi di controllo del territorio sono mobilitate per impedire che il contagio si estenda. I ministri della salute e delle politiche agricole hanno emanato il 13 gennaio un decreto che istituisce una zona rossa della durata di sei mesi in 78 comuni del Piemonte (tutti in provincia di Alessandria) e 36 della Liguria (province di Genova e Savona).

NELL’AREA DEL CONTAGIO SONO SOSPESE caccia, pesca, raccolta di funghi e tartufi, trekking, mountain biking, allo scopo di «evitare l’interazione diretta o indiretta con i cinghiali infetti o potenzialmente infetti». La Psa, pur non rappresentando un pericolo per gli esseri umani perché non in grado di trasmettersi, è una delle malattie più temute in campo zootecnico per le conseguenze sul piano sanitario ed economico. L’allerta è massima anche nella vicina Lombardia, dove viene allevato il 53% dei suini italiani. Gli allevatori stanno innalzando reti di protezioni e muri per difendersi dai cinghiali selvatici. Ma il virus può arrivare anche attraverso attrezzi, materiali, indumenti contaminati, rifiuti alimentari di origine animale.

UNA UNITA’ DI CRISI STA OPERANDO per rafforzare le misure di biosicurezza e verificare l’applicazione di tutte le norme igienico-sanitarie sul territorio. La Psa, più aggressiva della peste suina classica, è rimasta confinata per lungo tempo nell’Africa sub-sahariana, per poi diffondersi a partire dal 2007 in Georgia, Armenia, Russia, Ucraina e successivamente in Cina, sud-est asiatico, paesi dell’Europa centrale. Il virus ha oramai assunto caratteristiche endemiche. L’ondata epidemica che si è manifestata a partire dal 2018 e che ha interessato tutto il continente euro-asiatico è considerata la più grave epidemia nella storia della zootecnia.

LA MALATTIA PROVOCA NEGLI ANIMALI una febbre emorragica e la letalità arriva al 90%. Non esiste un vaccino o una cura per la peste suina. Il virus, appartenente al genere Asfivirus, ha una struttura complessa e una ventina di varianti e la caratteristica di non stimolare a sufficienza la produzione di anticorpi neutralizzanti. Questo spiega la difficoltà nella preparazione di un vaccino. Gli animali che superano la malattia possono essere portatori del virus per quasi un anno. Il ceppo virale ha la capacità di rimanere attivo anche per tre mesi nella carne congelata e nei salumi. La commercializzazione di prodotti contaminati può consentire al virus di effettuare un «salto» e raggiungere nuove aree.

CI SI DIFENDE VIETANDO L’INGRESSO di tutti i prodotti suini provenienti dalle aree del contagio. In questi giorni alcuni paesi (Cina, Giappone, Taiwan, Kuwait, Svizzera) hanno già deciso di sospendere le importazioni di carni e salumi provenienti dall’Italia. La Cina è stata il primo paese a varare il divieto per aver subito nel 2018-2019 i gravi effetti dell’epidemia, con l’abbattimento di 100 milioni di suini, il 25% del totale allevato. Il fronte dello stop alle importazioni italiane potrebbe allargarsi.

IL VALORE DELLE ESPORTAZIONI del settore suinicolo italiano è stato nel 2021 superiore a 1,5 miliardi di euro, di cui un terzo verso paesi al di fuori dell’Unione Europea. Una epidemia di Psa avrebbe gravi ripercussioni non solo sulla salute animale, con l’abbattimento obbligatorio di tutti i capi dove si diffonde il focolaio, ma anche per l’economia di tutto il settore per i divieti che vengono attuati. La Sardegna, dove la peste suina è comparsa per la prima volta nel 1978, rimanendo confinata nell’isola, ha impiegato decenni prima di riportare la situazione sotto controllo. Solo a partire dal 2018 la malattia può considerarsi eradicata nei suini allevati, mentre tra i cinghiali si riscontra ancora qualche focolaio. Di conseguenza, in tutti questi anni è rimasto in vigore il divieto di importare carni suine dalla Sardegna.

SECONDO L’ISTITUTO ZOOPROFILATTICO di Umbria e Marche, referente nazionale della peste suina, il profilo genetico del virus individuato in Piemonte è diverso da quello presente in Sardegna e somigliante a quello che circola nel centro-est dell’Europa. Questo fa pensare che la via d’ingresso sia legata ai movimenti dei cinghiali selvatici sul territorio europeo. La comparsa della peste suina ha riaperto la «questione cinghiali» e il loro rapporto col territorio, rinfocolando le polemiche sulla loro gestione. Gli allevatori, gli agricoltori e le associazioni di categoria accusano gli organismi regionali di averli reintrodotti in numerose aree, favorendone la proliferazione senza poi svolgere una adeguata opera di contenimento. Vengono denunciati i danni che gli ungulati arrecano alle produzioni agricole, il pericolo di contagio per gli allevamenti, gli incidenti che causano.

NELL’AMBITO DELLA STRATEGIA comunitaria, l’Italia ha varato negli anni scorsi il Piano nazionale di sorveglianza ed elaborato i documenti di indirizzo tecnico per la prevenzione della Psa nei cinghiali selvatici, con l’indicazione delle misure da attuare per il loro contenimento e la richiesta di una corretta raccolta dei dati relativi agli animali abbattuti. Ma le regioni sono andate in ordine sparso. Ora, di fronte al pericolo contagio, non si può invocare semplicemente lo «sterminio» dei cinghiali, senza mettere in discussione i sistemi di allevamento dei maiali, dimenticando che è la loro elevata concentrazione a costituire terreno fertile per la propagazione del virus.