Lo scorso ottobre un articolo pubblicato sui social media cinesi da Wang Tao, ex direttore della divisione indiana della compagnia di smartphone cinesi Zte, pare abbia mandato in subbuglio parte dell’opinione pubblica online della Repubblica Popolare.

L’intervento, intitolato «Il corporate management è l’arma segreta indiana per superare la Cina?» e ripreso da diverse testate cinesi in lingua inglese, ispirato da valutazioni comparative basate sull’osservazione in prima persona dell’ambiente corporate indiano da parte di Wang sostanzialmente esortava a un’introspezione generale, al di qui della muraglia, circa la supremazia manifesta del subcontinente nell’esprimere dirigenti di multinazionali occidentali, in particolare nel segmento dell’Information Technology (It).
Indicatore che, nonostante la crescita irresistibile del comparto con punte di diamante globali come Alibaba e Tencent, ancora non annovera alcun Ceo di origini cinesi a capo di un colosso occidentale dell’It, mentre i concorrenti indiani negli ultimi anni hanno di fatto consolidato la propria fama di assi dell’informatica andando a coprire alcune tra le posizioni più prestigiose del settore a livello mondiale.

Due esempi su tutti: Satya Nadella, ceo di Microsoft dal 2014, e Sundar Pichai, a capo dell’impero Google dal 2015, sono oggi i portabandiera di una generazione di informatici indiani capace di scalare la piramide della Silicon Valley a compimento di un cursus honorum agognato da milioni di giovani del subcontinente.

Eccellere negli studi, con passaggio obbligato da uno degli Indian Institute of Technology; vincere una borsa di studio per gli Stati uniti e, post specializzazione, iniziare la gavetta dalla manovalanza nerd fino a sfondare il tetto di vetro. Ha funzionato per il cinquantenne Nadella, in Microsoft dal 1992, e per il 45enne Pichai, assunto da Google nel 2004, due delle decine di migliaia di studenti indiani emigrati negli Stati uniti tra gli anni Ottanta e Novanta.

Oggi, pur in lieve flessione, sono quasi 190mila all’anno. I cinesi iscritti negli atenei statunitensi, però, oggi sono più di 350mila – quasi uno studente straniero su tre – e vent’anni fa, numericamente, non avevano nulla da invidiare ai colleghi indiani.
Statistiche alla mano, quindi, la tentazione di lanciarsi in analisi qualitative su «chi sia meglio» tra Cina e India – attività che, nel subcontinente, minaccia di scalzare il cricket come sport nazionale – è forte e ha prodotto una folta letteratura giornalistica.

Stephanie Cheung, laureata a Yale e di ritorno a Hong Kong dopo una breve carriera nel settore della finanza negli Stati uniti, in un articolo pubblicato nel maggio 2016 dal South China Morning Post – quotidiano di Hong Kong – puntava il dito contro il sistema dell’educazione cinese, basato ampiamente sulla ripetizione mnemonica di nozioni statistiche e fattuali.
«La libertà d’espressione è spesso non incoraggiata in classe; gli studenti sono premiati per quanto bene sono in grado di ricordare informazioni e conoscenze “in the box”», scrive Cheung, aggiungendo che gli studenti cinesi non hanno nemmeno l’opportunità di misurarsi in un ambiente insieme «multiculturale e competitivo».

A differenza dei colleghi indiani, cresciuti in una società non solo multiculturale e multireligiosa, ma soprattutto multilinguistica: nei college d’eccellenza indiani il trilinguisimo – inglese, lingua locale e hindi – non è l’eccezione, bensì la norma. Una bella palestra per chi è in procinto di buttarsi nella società globalizzata occidentale.

C’è però da rilevare un altro dato dirimente. La maggior parte degli indiani emigrati negli Usa per motivi di studio, una volta conclusa l’università ha davvero pochissimi motivi per rientrare in patria. E, specie nel settore dell’It, si guardano bene dal farlo.

C’entra molto il «basic income arbitrage», evidenziava nel 2014 Eric Bellman sul Wall Street Journal, all’indomani della nomina di Nadella a capo di Microsoft. «Da qualsiasi parte uno provenga, avrà bisogno di forti incentivi finanziari per lasciare la propria famiglia, i propri amici e i propri cibi preferiti. I manager cinesi delle compagnie di It di media già guadagnano 130mila dollari all’anno, non molto lontano dai 160mila dollari di media negli Stati uniti» indica Bellman, aggiungendo che la controparte indiana, a parità di impiego, «guadagna solo 35mila dollari all’anno».
Benefit che vanno ad aggiungersi a condizioni locali che, in India, rendono quasi impossibile la creazione di incubatrici di idee all’avanguardia in patria. Nonostante gli sforzi dell’attuale amministrazione indiana per snellire la cervellotica burocrazia interna, l’India non è ancora un paese per start-up.

«In Cina per aprire una fabbrica un dirigente d’azienda deve chiedere tre diversi permessi ad altrettanti dipartimenti. Un dirigente indiano può anche dover presentare 80 documenti da raccogliere in 80 uffici diversi» ha dichiarato Signe Spencer, autore del volume «The Indian CEO», al Global Times.

Questo mix di condizioni basta probabilmente a spiegare, almeno approssimativamente, perché oggi non esiste un Sundar Pichai cinese né, soprattutto, una Alibaba indiana.
Se il pedigree subcontinentale sembra aver dato i propri frutti nella formazione di ceo globali, il contesto cinese senza dubbio ha prediletto la nascita di start-up già leader in Asia e ora pronte a fare concorrenza alla Silicon Valley.