Quando un uomo picchia, maltratta, umilia, ricatta economicamente una donna non siamo soltanto davanti a un reato, ma a un comportamento che nasce dal potere che una persona si dà su un’altra. Nel 1986 nacque a Milano il primo centro antiviolenza italiano, (Cadmi, Casa delle donne maltrattate). Furono le donne a prendere in mano la situazione inventando un modello di aiuto che negli anni ha affiancato 30mila donne nel difficile percorso di ricostruzione di sé. Quella pratica femminista ha dato risultati e fatto scuola fino a ispirare la nascita di una rete di centri antiviolenza (finora 82) che oggi aderiscono a Di.Re.

Ora, che cosa dovrebbe fare un Paese che davvero voglia eliminare la subcultura della violenza patriarcale? Come minimo ascoltare e sostenere chi per primo ha affrontato il problema e ottenuto risultati perché va bene dare solidarietà a parole, ma serve anche mettere mano in modo sistemico al portafoglio e qui casca la maschera. Se si va a vedere quanti soldi sono destinati alla rete dei centri antiviolenza, e come sono spesi, viene fuori un panorama di avarizia non innocente. Prima di entrare nel dettaglio dei numeri bisogna fare un distinguo. «Non tutti i centri antiviolenza sono uguali – dice Mariangela Zanni della rete Di.Re – Da quando (2013) esiste la legge 119 che li finanzia, è messo nello stesso calderone chi si occupa di migranti, di tossicodipendenze, di disabilità e di donne maltrattate. Senza nulla togliere agli altri, la politica delle donne pratica metodologie e prassi più efficaci dei semplici servizi. Uscire dalla spirale violenta richiede un percorso sostenuto da altre donne e fatto prima di tutto di ascolto, poi di aiuti concreti (case di accoglienza, sostegno psicologico, legale, al lavoro). I centri storici andrebbero finanziati con fondi continui, congruenti ai bisogni e con un piano pluriennale».

E qui veniamo al grande scandalo italiano, la regione Lombardia. In base al famigerato titolo V, lo Stato stanzia una cifra per i centri antiviolenza, circa 30 milioni l’anno, e la gira alle Regioni che la devono distribuire. «Il problema – dice Cristina Corelli del Cadmi – è che ognuno fa come gli pare. Ci sono regioni virtuose come il Veneto che sono abbastanza regolari, altre come la Campania che non riconoscono alcuni centri, altre ancora come la Sicilia in perenne ritardo (a Catania aspettano i fondi da 5 anni), e poi la Lombardia, l’unica ad avere sospeso il finanziamento ai centri della rete Di.Re. La regione pretende che forniamo loro il codice fiscale delle donne che ci chiedono aiuto. Ci siamo rifiutate perché tradiremmo il patto di anonimato e fiducia stabilito con le donne. Lo abbiamo spiegato alla regione infinite volte, ma non ci ascoltano e dal giugno 2019 non riceviamo più un euro. Siamo uno dei centri più grandi d’Italia, ogni anno riceviamo 800 richieste, seguiamo 550 donne, facciamo prevenzione nelle scuole, il nostro metodo dà risultati da 35 anni, eppure ci sentiamo dire ’Noi vi diamo i soldi e quindi fate come diciamo noi’ come nel più classico dei ricatti economici».

In ogni caso, combattere la violenza contro le donne costa molto più dei soldi erogati dallo Stato. Due conti. I centri della rete Di.Re sono 82, l’Istat ha calcolato che ogni centro accoglie in media 250 donne l’anno per ognuna delle quali si lavorano 82 ore. Fanno 21.250 donne aiutate, 1.742.500 ore di lavoro che, ipotizzando 15 euro l’ora, ammontano a oltre 26 milioni di euro. Ministro delle Pari Opportunità, una controllatina a come e se vengono spesi i soldi che date alle regioni si può fare?

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