È in prima linea dall’inizio della pandemia. Giovanni Di Perri, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino, docente universitario dell’Ateneo e membro della task force regionale, ha un punto di vista privilegiato per inquadrare la situazione.

Professor Di Perri, quale lo stato dell’emergenza in Piemonte?

Da un punto di vista numerico i casi sono molto elevati, ma per quanto riguarda la domanda assistenziale la situazione è sotto controllo. I posti letto occupati nelle rianimazioni oggi sono 79 rispetto al massimo di 453 raggiunto il primo aprile scorso. E siamo a un terzo dei ricoveri convenzionali rispetto al dato al massimo registrato il 7 aprile. Bisogna, però, capire in che misura aumenterà il tutto. Quando si misurò il fenomeno la prima volta lo si fece in lockdown, con una sorgente di infezioni ridotta; in questa fase, invece, essendo aperti, continuiamo a infettarci. Gli attuali provvedimenti sono un tentativo di creare un’atmosfera di maggiore vigilanza in tutti noi. Siamo in una situazione evolutiva con una capacità del sistema lontana dalla saturazione ma l’andamento ci fa preoccupare. La speranza è che questa salita meno rapida della curva di domanda assistenziale ci permetta di diluire in un tempo più lungo quello che fu il picco di domanda tra marzo e aprile.

È in atto una conversione di reparti o di ospedali in centri Covid?

Negli ospedali esiste una sofferenza delle altre specialità, gli interventi programmati non urgenti vengono rimandanti e si sacrificano corsie di medicina interna per i malati Covid. Che l’ospedale Oftalmico a Torino sia diventato nuova area di degenza Covid è positivo perché era vuoto e così non si tolgono letti ad altri. Non so ancora se verrà rispolverato Verduno. Quello che è accaduto è la tempesta perfetta in un momento di grande crisi della struttura sanitaria, ho 62 anni e per la prima volta nella mia vita c’è un bando della mia specialità senza praticamente candidati: i migliori sono andati all’estero anche perché gli stipendi dello Stato sono fuori mercato e più del 50% dei salari non sono per ruoli assistenziali. Spendiamo per formare persone e poi le regaliamo.

Tamponi e tracciamento sono stati il vero tallone di Achille della prima ondata in Piemonte. Ora, le code continuano.

Se durante l’estate ce la cavavamo con meno di 3 mila tamponi, adesso con 12-13 mila abbiamo code perché l’aumento della domanda è vertiginosa. Speriamo di riuscire a compensare questo con i tamponi rapidi antigenici, che hanno una minore sensibilità degli altri ma riescono a identificare i veri contagiosi – un aspetto utile per il controllo dell’infezione – e non sovraccaricano i laboratori. In questo momento, abbiamo una positività al tampone del 9% mentre nelle fasi migliori eravamo sotto l’1% e riuscivamo a fare uno screening abbondante dei contatti. Ora, invece, con questi numeri non si riesce più a fare un tracciamento in senso stretto, rimane in campo l’azione di contattare i contatti dei contagiati e farli stare in quarantena.

L’età dei pazienti si sta abbassando?

Era molto bassa quando iniziò il fenomeno dei contagi di rientro dalle ferie arrivando addirittura a 29 anni. Poi, si sono infettati i genitori e qualche volta i nonni e l’età media è salita prima a 42 anni e poi a 46 anni e mezzo, che è la media della popolazione italiana e non dovrebbe crescere ulteriormente. È fondamentale proteggere gli anziani e i soggetti più a rischio.

Le misure attuali sufficienti o pensa che ne servano più restrittive?

Fossimo svedesi e tedeschi potrebbero incidere sull’aumento vertiginoso. Noi siamo un po’ più indisciplinati. Se guardo i diari delle nuove infezioni molte derivano da cene fuori, cerimonie familiari per cresime e battesimi. Cose sacrificabili, certo non per chi ha un ristorante e dovrebbe essere aiutato. Comunque nei contagi non c’entrano le scuole.

Cosa ci dobbiamo aspettare nelle prossime settimane?

C’è una tendenza all’aumento. Un esempio per capire cosa potrebbe succedere è la Svezia che non ha avuto un lockdown ma una riduzione di circa il 70% dei contatti convenzionali. Hanno avuto vari picchi, uno grande d’estate e dei piccoli picchi successivi. Nonostante la diversità dei Paesi, il paragone ci può permettere di capire cosa succederà rimanendo aperti.