Frances Mc Dormand e Woody Harrelson sono due attori magnifici i cui muscoli, nervi, espressioni, sfumature sentimentali permeano ogni film che li sceglie come protagonisti: non solo i Coen (lei), non solo True Detective (o Forman, Malick … ) lui e, andando indietro nel tempo, il politico in piacevolezza on the road healthy-vegano (come è Harrelson) attraverso gli States di Ron Mann, (Go Further) su un camper che denunciava gli effetti devastanti del proletariato alimentare in Usa. Metterli insieme, dunque, è già un indizio di riuscita specie se poi gli si chiede di sostenere una di quelle sceneggiature «impeccabili» che solo tempi e ritmi giusti dei corpi possono «sciogliere».
Three Billboards Outside Ebbing, Missouri (premio alla sceneggiatura a Venezia) vive su di loro, e sulle incursioni di altri protagonisti, a cominciare da Sam Rockwell premiato come McDormand ai recenti Golden Globes dove il film di Martin McDonagh, drammaturgo e regista (suo 7 psicopatici con nel cast di nuovo Harrelson) irlandese nato a Londra, con passione per Beckett ha trionfato.

 

 

 

Incursione nell’America redneck profonda – la precisione geografica del titolo è molto più che un vezzo, siamo infatti nel Missouri schiavista pure quando ammesso nell’Unione – la narrazione di McDonagh ne evidenzia sui manifesti e sui cartelloni pubblicitari le pulsioni di un rozzo machismo atavico, e soprattutto il «malinteso» tra giustizia e vendetta, vocazione violenta e autoritaria della società americana e mutuo rispetto.

 

 

Mildred (McDormand) è una madre disperata, sua figlia Angela, una ragazzina, è stata stuprata e bruciata lungo la strada di casa, e il delitto è rimasto senza un colpevole. La polizia locale sembra indifferente, troppo occupati come l’agente Dixon (Rockwell) a brutalizzare african american e omosessuali mentre la comunità chiusa e diffidente preferisce dimenticare l’accaduto per non sentirsi in imbarazzo. E poi il colpevole deve essere per forza qualcuno di fuori.

 

 

Così Mildred prende i suoi soldi e fa affiggere tre manifesti all’entrata del paese, sui quali come uno schiaffo interroga i concittadini, e esplicitamente lo sceriffo (Harrelson) su quanto stanno facendo, sul perché non ci sono responsabili. La cosa suscita fastidio se non rabbia, la donna viene minacciata, la comunità si chiude, i poliziotti diventano ancora più aggressivi e l’accusano di tormentare il povero sceriffo malato terminale che però sembra l’unico a affrontare la cosa da una prospettiva diversa. Anima bella della storia, e controcampo agli altri due per i quali la giustizia può essere solo «fai-da-te», ne interroga l’idea di mondo in altri tre «manifesti»: tre lettere che lascia in privato all’amata moglie e alle figliette,e a Mildred e a Dixon provando (forse) a spingerli su altre strade.

 

 

McDonagh non cede mai, neppure scricchiola pur concentrando molto tra archetipi e possibili declinazioni dell’immaginario in questa storia che è prosa capace di parlare a tutti più che poesia, e che non lascia molti spazi escluso – ma anche questo sembra essere parte del disegno – il finale potenzialmente aperto. È l’America come l’abbiamo vista, anche se per fortuna la retorica si stempera nella commedia con esercizio spirituale e esistenziale. E però nel presepe di Ebbing – o di McDonagh – finisce per esserci qualcosa di troppo di quell’America narrata e trasognata patrimonio della realtà (i Trump) e del mito (il paesaggio western), delle guerre fuori ma specialmente dentro (la ragazzina bruciata e violentata come ogni giorno in Iraq o in Afghanistan o prima ancora in Vietnam). Ogni passaggio, ogni dettaglio ci viene offerto senza fatica, passo dopo passo, con la sapienza di dialoghi e il dosaggio misuratissimo dei movimenti emozionali che soddisfano (meglio che in una serie) ogni esigenza a possibile: commozione, risata, indignazione. Non manca nulla. O forse sì, uno scarto, un inciampo, quel «difetto» che sorprende. Almeno un po’.