Fino all’attacco all’articolo 18 e agli insulti, non certo rivolti solo ai dirigenti della Cgil (sotto tiro sono soprattutto i lavoratori organizzati, colpevoli di essere “garantiti”!), la deviazione autoritaria imposta da Renzi, appariva una forzatura presuntuosa per riallineare il Paese ai canoni del decisionismo liberista. Ora è più evidente, e più chiaro per tutti, che nella strategia concordata dal premier con Berlusconi si configura un attacco specifico alla democrazia economico sociale in ogni suo punto. La nostra passata esperienza sindacale ci aveva da subito avvertito.

Depotenziare e screditare a colpi di annunci il lavoro – dotato dalla Costituzione non solo di diritti, ma anche di poteri – significava non prendere di petto le cause vere della crisi e cercare di affrontarla a dispetto dell’uguaglianza e della stessa libertà.

Ma questa volta l’ex-sindaco di Firenze è andato oltre ogni limite. Toccare la carne viva e la dignità del corpo sociale, in sintonia con quelle forze di destra che ora si ritrovano entusiaste nelle parole del presidente e che hanno sempre accusato il sindacato, e la Cgil in primo luogo, di opporsi alle “moderne” flessibilità, rende provocatoria e insopportabile la domanda, rivolta anche a noi: «dove eravate?».

Chi vuole rottamare l’art. 18 in nome dei giovani senza lavoro – che non sanno cosa siano gli 80 euro e che, se dovessero trovare un lavoro, oltre i tre anni di contratto a termine senza causale, non avrebbero comunque la certezza di un futuro – deve sapere che ci sono molte persone che hanno scelto l’impegno sindacale senza altro privilegio che il consenso e la stima di quelli che hanno rappresentato. Che hanno provato, dopo essere stati eletti democraticamente e aver fatto esperienza di centinaia di assemblee conquistate con lo Statuto, a difendere al meglio la dignità di chi lavora, anche laddove, senza art. 18, molto più difficile è la presenza sindacale e molto più facile il ricatto e il non rispetto dei diritti.

Queste persone si sentono ora insultate da chi non ha mai lavorato in vita sua, se non brevemente e con una strana qualifica di “dirigente” nell’azienda di famiglia senza dipendenti fissi e, quindi, senza ombra di legge 300 da conoscere ed applicare. Da chi, oltretutto, in nome dell’antipolitica, ha sempre fatto politica nei partiti fin da giovanissimo, magari giovandosi del “distacco”, che proprio scioperi e lotte hanno legittimato. Il problema è che questa deriva autoritaria e strafottente ha già fatto scuola: sappiamo di atteggiamenti che copiano lo “stile renziano, con giovani capetti che insultano e umiliano lavoratori più anziani, padri di famiglia. E la frase irridente «ce ne faremo una ragione», ripresa non a caso da Marchionne, sta intorbidando le relazioni sindacali in molte aziende. Il video-messaggio di insulti alla Cgil è solo l’ultimo atto di una involuzione che transita dai diritti civili a quelli sociali. E’ un disegno che si fa forte del patto del Nazareno.

Non si sottovaluti la strategia di Renzi. Lo fermino la Cgil e i sindacati confederali, fin qui troppo timidi nel contrastare atti che hanno già prodotto danni rilevanti. Lo fermi la Fiom di Landini, che ha una credibilità tale da non dover ricorrere a comportamenti tattici nei confronti del premier. Lo fermino, se possibile, i parlamentari, rappresentanti di una Costituzione di democrazia sociale. Anche quelli del Pd, che sono stati eletti su un mandato che non prevede acquiescenza né tantomeno complicità. E fermiamolo anche noi, a suo tempo sindacalisti, ma ancora fieri di qualche nostra “ideologia”, difficile da rottamare a buon prezzo, perché la scuola dei lavoratori ci ha insegnato a non farci ingannare.