Nel suo ultimo libro Gian Paolo Ormezzano ci propone una galleria dei campioni del giornalismo sportivo italiano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri.

In realtà I Cantaglorie, storia calda e ribalda della stampa sportiva, edito dalla 66tha2nd, è anche l’occasione per una serie di spesso amare riflessioni sulla professione, assediata dal mostro internet, con il suo proliferare di blog e l’onnipresenza dei social network. Ma se il giornalismo di oggi è spesso «gaglioffo e sguaiato», nemmeno lo sport gode di buona salute. In primis il football, troppo inquinato dal virus del denaro e troppo segnato da un’omologazione diffusa per suscitare ancora gli entusiasmi di una volta.

Dall’alto dei suoi oltre 60 anni di lavoro sul campo – è proprio il caso di dirlo – plasmato da Olimpiadi, Tour e Giri e infiniti altri eventi seguiti dal vivo forse nessun altro se non Ormezzano si poteva permettere di scrivere un libro così prezioso. Con il suo stile ammaliatore e un lessico così piacevolmente lontano da alcune derive del giornalismo odierno, il cronista e scrittore fieramente torinese (e torinista, ça va sans dire) suddivide la professione in tre epoche. Si parte dai cantori, Carlin, Carosio e Mura, si passa dall’erotismo di Brera, Zavoli e Palumbo per finire nella pornografia sportiva di Mosca o di Biscardi, «il Funari del calcio».

La categorizzazione non è sempre così netta, tutt’altro, come ci spiega lo stesso Ormezzano, che per tratteggiarne il profilo ci regala schegge di vita vissuta con ognuno di cotanti personaggi. Non mancano gli aneddoti, come quando Gianni Minà lo invitò a una cena con Robert De Niro, Cassius Clay e Farah Fawcett e il nostro pensò fosse uno scherzo, sottovalutando le conoscenze del giornalista dall’agendina più infarcita di nomi illustri che eserciti la professione in Italia. O come quando a Candido Cannavò, dopo una delle mirabili imprese della coppia Dibiasi & Cagnotto, fu chiesto quanti tuffatori ci fossero in Italia e il giornalista statunitense che aveva posto la domanda in un primo momento credette che «due» fosse riferito a due milioni e non a due persone, «dettaglio» che il compianto ex direttore della Gazzetta dello Sport si affrettò a spiegare.

Gli spunti intriganti e gustosi sono comunque molteplici. Magari ad aver oggi le differenti visioni, che a volte sfociavano in aperto contrasto, tra Ghirelli e Brera, l’uno convinto che lo sport fosse soprattutto un fenomeno sociale, l’altro che era studioso del gesto atletico elaborato da un campionario di razze. In quegli anni ruggenti i grandi scrittori come Buzzati e Arpino venivano prestati alla narrazione sportiva ed era proprio un bel leggere. Poi si è affermata in maniera definitiva la televisione, che all’alba degli anni Sessanta ha contribuito a certificare il passaggio di consegne tra ciclismo e calcio come sport più nazional popolare. Che ora nella sua bulimia non sembra avere più limiti, come ci ricorda nella Ormezzano ne I Cantaglorie.