Movimentano un giro di affari grosso quanto una manovra finanziaria: 16 miliardi di euro. Controllano una enorme quantità di terreni su tutto il territorio nazionale: almeno 26.200. Riciclano e ripuliscono il denaro, determinano i prezzi nei mercati ortofrutticoli, controllano il racket dei caporali, si arricchiscono grazie alla contraffazione dei marchi: le agromafie – presenti in maggiore concentrazione nel Mezzogiorno – non fanno prigionieri e sono ben lungi dall’essere sconfitte. Il ritratto nell’ultimo Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura, presentato ieri a Roma (i dati sono riferiti al 2015).

Su tutto il territorio nazionale, spiega il Rapporto, «sono 26.200 i terreni nelle mani di soggetti condannati in via definitiva per reati che riguardano tra l’altro l’associazione a delinquere di stampo mafioso e la contraffazione, anche perché il processo di sequestro, confisca e destinazione dei beni di provenienza mafiosa si presenta lungo e confuso, spesso non efficace e sono numerosi i casi in cui i controlli hanno rilevato che alcuni beni, anche confiscati definitivamente, sono di fatto ancora nella disponibilità dei soggetti mafiosi».

Proprio per sollecitare un contrasto più deciso al fenomeno, la Coldiretti ha chiesto di intensificare i controlli in tutta la filiera che porta dal campo al consumatore finale di ortofrutta. Inoltre, ai ministri dell’Agricoltura Maurizio Martina e della Giustizia Andrea Orlando, viene chiesto di completare l’iter legislativo e applicativo delle norme sul caporalato e sulla confisca e successiva gestione dei beni appartenuti alla criminalità organizzata.

«Tra i 20 ed i 25 miliardi di euro vengono sprecati per il mancato utilizzo dei beni confiscati sulla base delle stime dall’Istituto nazionale degli amministratori giudiziari (Inag) – dice ancora il Rapporto – Si stima che circa un immobile su cinque confiscato alla criminalità organizzata sia nell’agroalimentare. Il 53,5% si concentra in Sicilia, mentre la restante parte riguarda soprattutto le altre regioni a forte connotazione mafiosa, quali la Calabria (17,6%), la Puglia (9,5%) e la Campania (8%). Seguono con percentuali più contenute la Sardegna (2,3%), la Lombardia (1,6%), la Basilicata (1,5%) e il Piemonte (1,3%). Le altre regioni si attestano sotto l’1%».

La Dia ha avviato un monitoraggio e i report che ne raccolgono i risultati denunciano molte irregolarità con tantissimi beni che risultano ancora occupati o dai mafiosi stessi o da loro parenti e prestanome. All’origine di questo fenomeno, secondo gli estensori del Rapporto, ci sono «inadempienze, procedure farraginose, lungaggini burocratiche». Con una beffa, oltre al danno: i criminali che non vengono sgomberati dagli immobili godono perfino del vantaggio di non dover pagare le tasse sul bene, poiché sequestrato.

Infine, finché i beni sotto sequestro non vengono riutilizzati, anche quando non sono più direttamente a disposizione dei soggetti mafiosi, «comunicano all’esterno il permanere del loro controllo sul territorio», evidenziano Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.

A essere colpito dalle agromafie è soprattutto il Sud, dove – specie in alcune province – il controllo da parte di mafia, camorra e ’ndrangheta è diffuso e capillare: «In regioni quali la Calabria e la Sicilia si denota un grado di controllo criminale del territorio pressoché totale, al pari della Campania – si legge nel Rapporto – Il grado di controllo e penetrazione territoriale della Sacra corona unita in Puglia, invece, pur mantenendosi significativamente elevato, risulta inferiore che altrove così come in Sardegna, regione dove all’elevata intensità dell’associazionismo criminale non corrisponde di pari grado l’egemonia di un’unica organizzazione».

Ma se il Mezzogiorno la fa da padrone, questo non vuol dire certo che altre zone d’Italia siano immuni: una «forte e stabile presenza» delle agromafie è stata riscontrata nel Centro, in Abruzzo e in Umbria, in alcune zone delle Marche, nel Grossetano e nel Lazio, in particolar modo a Latina e Frosinone. Anche al Nord il fenomeno presenta un grado di penetrazione importante in Piemonte, nell’Alto lombardo, nella provincia di Venezia e nelle province romagnole lungo la Via Emilia.

«Contro il lavoro nero monitoriamo le nostre aziende e siamo pronti a espellere dall’organizzazione chi non rispetta i lavoratori – dice Gennarino Masiello, presidente di Coldiretti Campania – Allo stesso modo chiediamo alle istituzioni un controllo sul mercato nero ortofrutticolo. Nelle zone più a rischio si moltiplicano i “furti nelle campagne” e spuntano banchetti illegali lungo le strade. Ormai siamo alle postazioni fisse, una sfida all’impunità».