Ganfuda, Majer, Misurata, Abu Salim, al-Zawiya… L’elenco dei campi di concentramento di migranti in Libia – li chiamano centri di detenzione o strutture d’accoglienza per conferire un’inesistente dignità agli accordi politici stipulati dal 2008 ad oggi tra i governi libici e quelli italiani e di altri paesi europei – si allunga di mese in mese. Sono solo 17 i luoghi di trattenimento formali, ma l’elenco delle carceri dove senza accuse né processi sono reclusi migliaia di migranti, uomi donne e bambini provenienti soprattutto dal Corno d’Africa (Somalia, Eritrea e Etiopia) e immessi nella tratta lungo la Libia, sembra infinito.

In questi campi gestiti da miliziani – la Croce rossa ne ha visitati solo una sessantina – si stima ci siano fino a 6 mila persone. Ma è solo un dato indicativo. Ammassati in condizioni subumane, sottoposti a ogni genere di vessazioni, stupri e torture, per la sola colpa di avere la pelle nera in un paese diventato ormai «un enorme supermercato di armi, dove regna la confusione e la legge del più forte», non hanno diritti né voce, cancellati dal mondo come polvere sotto il tappeto. C’è solo un modo di ascoltare le testimonianze di questi «condannati all’inferno libico»: il telefono cellulare che spesso riescono a portare con sé. È in questo modo che la onlus InMigrazione ha raccolto centinaia di testimonianze in un dossier presentato nei giorni scorsi dal titolo «0021, trappola libica», dal prefisso internazionale digitato migliaia di volte per entrare in contatto con i cellulari libici nascosti nei centri di detenzione.

«La situazione è molto drammatica, in carcere ti danno un pane al giorno, solo un pane, poi c’è la tortura…ti picchiano in ogni modo possibile… se provi a scappare, se fai qualsiasi cosa ti picchiamo con il bastone. Le donne vengono stuprate e mandate via», racconta Tesfu (ma i nomi sono di fantasia). E Salih: «Ci sono donne incinte, bambini, minori. Ce n’è uno anche qui nella nostra stanza, si chiama Mahamed. So che solo tra gli eritrei ce ne sono cinque o sei di 14 o 15 anni. Stanno con noi, vivono con noi. Questi sono da soli, non sono accompagnati, mentre ce ne sono altri piccoli con la famiglia. Ci sono famiglie e i loro figli in una stanza, ci sono bambini di 5/7 anni, ci sono sette bambini eritrei che conosciamo di tre famiglie…e altri 3-4 di altre famiglie».

Nel maggio scorso, testimonia Amnesty international, nel “centro di trattenimento” di Sabha si trovavano 1300 persone: «La prigione è risultata priva di un servizio di fognatura funzionante e i corridoi erano pieni di immondizia. Circa 80 detenuti presumibilmente affetti da scabbia erano sottoposti a “trattamento” in un cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione». I delegati di Amnesty hanno documentato «numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali pestaggi con cavi elettrici e tubi dell’acqua. In almeno due “centri di trattenimento”, è stato riferito dell’uso di munizioni letali per sedare le rivolte. Un uomo che era stato raggiunto da un proiettile a un piede è stato legato a un letto e poi colpito col calcio di un fucile: per quattro mesi non ha potuto camminare».

«Razzismo e rastrellamenti hanno subito una recrudescenza nel settembre 2012 dopo l’attacco al consolato Usa di Benghazi e nel febbraio del 2013 in occasione del secondo anno della “rivoluzione”», spiega Simone Andreotti, presidente di In Migrazione Onlus. «Evitare queste morti non è impossibile – spiega Andreotti -. Sarebbe sufficiente permettere a queste persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei paesi di transito, per poter fare richiesta d’asilo in Europa. Una scelta che salverebbe tante vite, spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani e permetterebbe di smarcarsi definitivamente dai ricatti di paesi che trasformano l’apertura o la chiusura delle frontiere in un’arma di pressione internazionale».