Da almeno un decennio gode di una certa fortuna, soprattutto in Germania, la detestabile figura del «cacciatore di plagi». Questi Bounty killer della parola scritta esercitano il loro talento venatorio, intervenendo, non sappiamo se sospinti da un impeto moralizzatore o da meno confessabili sollecitazioni, nell’agone politico. L’ultima vittima di questi segugi letterari, in questo caso il «mediologo» austriaco Stefan Weber, è Annalena Baerbock, la giovane candidata dei Grünen alla Cancelleria di Berlino, accusata di essersi ampiamente impossessata di passaggi tratti da altre opere e documenti nel suo recente libro Jetzt (ora), senza citare le fonti.

LA POLEMICA che ne è seguita è delle più stucchevoli, trattandosi principalmente di brani relativi alla riproposizione di dati e circostanze ampiamente diffusi e ripetutamente descritti. Ma anche l’autodifesa dell’accusata, che non trattandosi di opera accademica o specialistica non prevedeva un apparato di note, suona del tutto imbarazzata e superflua. Si tratterebbe insomma di uno di quei libri, non troppo originali né appassionanti, che i politici con poco tempo e altre preoccupazioni sono soliti mettere imprudentemente insieme nell’errata convinzione che ciò serva a illustrare il loro spessore intellettuale. Ambizione modesta, colpevole, nel peggiore dei casi, di tediosa mediocrità (sebbene non si intenda con ciò esprimere giudizi sul libro della Baerbock che non si è letto).

Certo è tuttavia che la candidata verde è oggetto di una campagna martellante e piuttosto meschina volta a sottolinearne l’ingenuità e l’inadeguatezza a guidare la Repubblica federale. Non solo da parte degli avversari politici, ma anche da chi, fra i verdi, non era convinto della sua candidatura. A Baerbock era stato già contestato il peccato veniale e comunque assai diffuso di aver infiorettato il suo profilo. E, del resto, gli abbellitori di curricola popolano anche il nostro ceto politico (Fedeli, Conte).

Fino ad oggi i «cacciatori di plagi» germanici si erano essenzialmente dedicati non alla saggistica ma a lavori di dottorato e master, stabilendo la soglia di «prestiti» non dichiarati oltre la quale aprire il fuoco sul ladruncolo accademico. Facendo così non poche vittime illustri a partire dal barone zu Guttenberg, brillante ministro della Difesa costretto alle dimissioni nel 2011. Al quale seguì la ministra dell’Istruzione della Cdu Annette Schavan, che del caso del barone si era mostrata grandemente indignata, condotta alle dimissioni per plagio della tesi di dottorato (1980) nel 2013. I cacciatori di plagi risalgono in alcuni casi di diversi decenni addietro per smascherare la loro vittima, tanto che è difficile non nutrire il sospetto che abbiano ricevuto un preciso incarico.

NEANCHE L’ATTUALE presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sfuggì ai cacciatori che nel 2015, quando ricopriva la carica di ministro della Difesa, presero di mira la sua tesi in Medicina. Ma si sa quanto poco contino le tesi in quel ramo di studi, e la cosa, come si è visto, non ha minimamente influito sulla sua carriera politica. Ha rassegnato invece le dimissioni quest’anno la socialdemocratica ministra della Famiglia Franziska Giffey, anche lei sotto accusa per la sua tesi di dottorato.

Non mancarono in Italia entusiastici ammiratori del «rigore tedesco» quando analoghi sospetti di plagio, ricavato in precisa ma modesta percentuale dai software dei segugi, colpirono le ministre Madia e Azzolina (sarà un caso ma i cacciatori sembrano prediligere prede femminili) che alle dimissioni preferirono saggiamente convivere con l’accusa.

QUESTO «RIGORE», non sappiamo se più ottuso o strumentale, si fonda su una strategia di discredito che omette alcuni elementi decisivi. In primo luogo, nelle democrazie moderne le cariche elettive non richiedono titoli, in secondo luogo questi titoli sono stati conferiti a suo tempo da commissioni (corrive, incapaci o solo tecnologicamente disarmate?) che hanno valutato positivamente il lavoro svolto per accedervi. Dovremo indagare anche sul loro conto? L’esame retroattivo è una follia come lo sarebbe pretendere di rimettere in discussione sulla base delle tecnologie attuali i risultati delle partite di calcio degli anni ’60 o ’70. E, del resto, anche quando conseguiti con solide opere d’ingegno, di fatto non si attribuisce più grande valore ai titoli accademici. Tanto varrebbe sostituire la già sommaria lettura di una tesi con l’impiego dei «software antiplagio». Si saranno magari scritte banalità, ma almeno si resterà al riparo dalle doppiette dei cacciatori.

E, in fondo, Baerbock ha ragione, «un libro non si scrive mai da soli» e, si potrebbe aggiungere, copiare è un modo concreto e immediato per aggredire la proprietà intellettuale e annullare la distanza tra lettore e autore. Dissipando l’aura arcaica che circonda quest’ultima figura. Copiare le cose giuste e copiarle bene è in fin dei conti un lavoro del tutto apprezzabile.