Le piante esercitano da sempre una profonda fascinazione nell’attività creativa degli scrittori. Anzi, secondo alcuni scrittori contemporanei è solo guardando e analizzando il mondo vegetale, le sue qualità sistemiche, che il genere umano potrà e saprà comprendere come il rispetto della natura altro non sia che il rispetto verso se stessi. L’azienda aretina di prodotti naturali e biologici per la salute Aboca raccoglie questa suggestione editando una interessante serie di libri intitolata Il bosco degli scrittori. Partendo da un albero, alcuni tra gli scrittori più affermati e consapevoli (tra gli altri Paolo Cognetti, Luca Doninelli, Enrico Brizzi) raccontano il mondo, il loro e il nostro.

Ad inaugurare la collana è Carmine Abate con L’albero della fortuna (Aboca, 2020, pagg.172, euro 15). Il romanziere calabrese rievoca il tempo dei bottafichi, i fioroni, dalla polpa carnosa, dolcissimi e succosi. Sul finire di giugno, questo vecchio fico rigoglioso, che somiglia al sicomoro di Gerico, nel senso che sembra spargere una sua antica religiosità, annuncia a Spillace, immaginario paese della vecchia Calabria arbëreshë, terra natia dello scrittore, il momento più bello dell’anno. È un’esplosione di sapori, profumi, calore. Non è di nessuno, quell’albero di fico cresciuto accanto ad una siepe di sambuco. I bottafichi sono una passione ossessiva per Carminù. Tutte le mattine lotta contro quelle strunze delle grisce – le ghiandaie – per aggiudicarsi i frutti migliori.

Abate, vincitore del Campiello nel 2012, nel suo nuovo romanzo ripercorre così la sua infanzia malinconica e gioiosa nel villaggio di Spillace, che è poi la natia Carfizzi, il borgo che rappresenta una pietra miliare della sua geografia affettiva. È da questo piccolo mondo antico che Abate attinge tutta la poesia della sua nuova storia, in una successione di quadretti dai quali traspare la filosofia della sua esistenza: le corse in giro per la campagna a rubare frutta e uova, le partite a pallone sui campi, i segreti condivisi tra compari che si scambiano a vicenda un garofano rosso in segno di eterna amicizia. Il fico di Spillace, «con il suo alone di luce rossastra attorno alla chioma» pareva un albero santo che si beava nel silenzio della piccola comunità calabro – albanese dal sapore agrodolce. Ma, ad un tratto, il dolce del fico, l’armonia della na calma domestica, i piccoli piaceri della vita s’infrangono quando il padre emigra, parte per la Germania e offusca così la piccola felicità familiare.

I temi della partenza, degli strappi, delle segrete ferite, cari ad Abate, riappaiono nel libro di un autore che esplora i dettagli dell’esistenza, ma è pure consapevole che alla fine certi legami che si spezzano non sono null’altro, forse, che il rovescio della felicità. In una Calabria dalle tinte chiaroscure, tra la pasta al forno e le polpette dell’adorata mamma, i capelli biondi di Rosalba, l’ammirazione sconfinata per un padre di cui condivide gli stessi occhi, «così profondi che si mangiano il mondo», Carminù si accinge ad affrontare le grandi prove che lo porteranno verso l’età adulta. Lo aiuterà in questo percorso di formazione il novantenne Nuni Argenti, ritornato a Spillace dopo una vita da emigrato. Questo vecchio saggio e solitario, intriso di malinconia e sapienza, darà a Carminù le chiavi per decifrare un mondo che, a quell’età, si va facendo sempre più contorto. L’albero di fichi diventa così «tempio di saggezza» nelle parole di Nuni Argenti: è il guardiano di una quotidianità scomparsa, dove si rinnovavano piaceri, amarezze, sensazioni, strappi, tristezze, gioie, ancora non assaltate dalla falsa modernità.

Un mondo, dove ci si divertiva con piccole cose, si annusavano i profumi agresti. Dove si raccontava, si solidarizzava, e si capiva. Questa Calabria della modernizzazione senza sviluppo, già descritta da Pasolini, si è nel tempo spopolata. Ma i bottafichi non sono morti. Sono lì con i loro frutti.