L’idea di «coltivare» i carburanti era piaciuta a molti. Canna da zucchero, mais, soia, girasole, arachide, canapa, colza, palma da olio. Ognuna di queste piante con la sua storia, coltivate in ambienti diversi, a segnare i territori e le vite degli uomini. In comune la caratteristica di produrre biocarburanti.

CANNA DA ZUCCHERO E MAIS che si trasformano in etanolo, le oleaginose in biodiesel. Ogni anno si producono nel mondo circa 100 milioni di tonnellate di biocarburanti. I primi paesi a produrli su larga scala sono stati gli USA e il Brasile. Sono i due principali produttori mondiali, rispettivamente con 31 e 17 milioni di tonnellate annue(2016). Negli ultimi anni si è scatenata una corsa all’acquisizione di terreni da destinare alla produzione di biocarburanti, coinvolgendo nuove aree in America latina, Cina, India, Africa, Sud-Est asiatico. Ma coltivare per produrre combustibili richiede vaste superfici, e questo può avvenire solo sottraendo terreni alle piante destinate all’alimentazione o abbattendo foreste. Esattamente quello che sta avvenendo.

La produzione di biocarburanti entra in competizione con le colture alimentari, con gravi ripercussioni sulla disponibilità di alimenti. Sul piano economico si determina un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli destinati all’alimentazione. Molte delle aree su cui si inserisce la produzione di biocarburanti sono abitate da comunità locali che praticano una agricoltura di sussistenza o destinata al mercato interno. La nuova forma di agricoltura industriale, con elevati investimenti di capitali e bassissimo impiego di manodopera, prende il sopravvento. Si ottengono elevati livelli di produzione da destinare al mercato internazionale, ma non si produce alcuna forma di sviluppo rurale. Si determina, al contrario, un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali, con scomparsa delle forme di agricoltura familiare, disgregazione sociale, danni ambientali. E’ lo «sviluppo che impoverisce».

I SOSTENITORI DELL’IMPIEGO DEI biocarburanti mettono in evidenza i benefici che essi possono fornire, rispetto ai combustibili fossili, da un punto di vista ambientale, nella riduzione dei gas serra. Se si coltiva un’area, per produrre etanolo o biodiesel, si riducono i gas serra? Se si considera tutto il ciclo produttivo, dalla coltivazione alla combustione, la risposta è «No». Perché vanno valutati tutti gli effetti ambientali di queste produzioni, analizzando quella che viene definita «impronta ecologica». Il calcolo della «impronta ecologica» è stata una chiave di volta importante per chi si occupa di ecologia, per misurare la sostenibilità in campo ambientale. Ebbene, se per i biocarburanti si valutano alcuni indicatori (l’energia necessaria a produrli, le materie che si consumano durante la produzione, l’acqua utilizzata, le trasformazioni chimico-fisiche necessarie, i gas prodotti dalla loro combustione), si arriva alla conclusione che essi producono una quantità di gas serra che è superiore del 50% rispetto ai combustibili fossili.

IN QUESTI ANNI L’UNIONE EUROPEA ha prodotto e consumato biocarburanti. Negli ultimi 10 anni la quantità utilizzata si è quadruplicata. I dati della Commissione Ambiente del Parlamento europeo ci dicono che il 60% dei semi oleosi e il 4% dei cereali coltivati in Europa sono impiegati nella produzione di biocarburanti. In questi anni è stato l’olio di palma il biocarburante più impiegato in Europa, con una importazione annua di 3,5 milioni di tonnellate. L’olio di palma, che stiamo faticosamente rimuovendo(almeno in Italia) dalle nostre tavole, continua a trovare posto nei serbatoi dei mezzi di trasporto. Esso rappresenta il 40% di tutta la produzione mondiale di oli vegetali. Se pensiamo che l’olio d’oliva rappresenta solo l’1% degli oli vegetali, ci rendiamo conto della dimensione che ha assunto la produzione di olio di palma.

Sono Indonesia e Malesia a detenere il monopolio della sua produzione con ben l’85%. E le foreste pluviali del Sud-Est asiatico vengono devastate per far posto alla palma da olio. Si disbosca con il fuoco. Tutti gli anni, durante la stagione secca, nel periodo che va da giugno a ottobre, l’Indonesia brucia. Il Borneo, Sumatra e le altre isole sono interessate da incendi che durano settimane. La rivista Nature ha pubblicato un rapporto in cui si analizzano gli effetti della deforestazione nelle foreste pluviali. La torba, senza la copertura forestale, essicca e brucia facilmente, liberando enormi quantità di anidride carbonica. I satelliti della Nasa hanno rilevato una media di 100 mila incendi all’anno nell’area delle foreste torbiere, facendo dell’Indonesia il maggior produttore di gas serra insieme a Stati Uniti e Cina.

SONO ANCHE GLI ORANGHI DEL BORNEO a pagare un prezzo altissimo. Negli ultimi 20 anni la loro popolazione si è più che dimezzata, a causa della distruzione del loro habitat. Questo complesso di situazioni impone la necessità di riconsiderare tutta la questione biocarburanti. Se, da un punto di vista della sostenibilità ambientale, una prospettiva vi può essere per alcune tipologie, la condizione è che essi derivino da biomasse non alimentari, scarti di lavorazioni agricole, sostanze di rifiuto. Per fermare i disastri ambientali e sociali che i biocarburanti ricavati da colture alimentari hanno determinato.