La fotografia di Istvan Huszti, ripresa in un disegno da Peter Donka, è diventata il punto di partenza obbligato per raccontare lo zeitgeist della dissidenza artistica unghererse nell’era dell’«orbanizzazione» forzata del paese. Uno scatto emblematico che cattura l’artista Csaba Nemes, esponente del gruppo Szabad Muveszek dei «Free Artists», fermato con una cartellina in faccia da un poeta ufficiale durante un evento voluto dal governo nel dicembre 2013.La mostra organizzata al MOCAK di Cracovia, aperta fino al prossimo 27 marzo, resta un’occasione importante per raccontare un artista immune al populismo nazionalista di Fidesz. Nemes non si è mai lasciato sedurre dalle sirene dell’Accademia di Belle Arti ungherese (MMA), un leviatano culturale inserito nella costituzione da Orban che ha ottenuto un monopolio sulla scena artistica nazionale. Negli ultimi anni la Galleria nazionale ungherese, la «kunsthalle Mucsarnok», e tanti altri spazi espositivi, sono infatti finiti nell’orbita della MMA.
L’imponente dipinto Fieldwork (2015) che apre la spazio espositivo chiarisce immediatamente che il bersaglio dell’artista magiaro non si limita soltanto alla deriva nazionalista della società ungherese ai tempi di Orban: Nemes riprende su una tela di grande formato una fotografia pubblicata nel 1982 di un pittore ufficiale di stato, cavalletto sulla spalla, impegnato a immortalare la costruzione della centrale nucleare di Paks. E evidente che Nemes sia interessato alle relazioni tra potere, società e cultura tout court.
E ancora la fotografia il punto di partenza della serie Father’s Name (2009-14) in cui Nemes reinterpreta con il pennello alcuni temi tratti da alcune «fotografie di provincia» dell’archivio paterno. Il formato quadrato originario degli scatti, tutti realizzati negli anni Sessanta e Settanta, viene mantenuto secondo una logica di rispetto del passato. Eppure, l’artista sceglie un approccio documentaristico fatto di pennellate sommarie che neutralizzano ogni connotazione nostalgica o traccia di realismo magico.Il passato socialista ma anche la transizione al capitalismo che Nemes affronta con il medium fotografico: nel progetto Stolen Facades (1992) l’artista ha fotografato le facciate di alcuni edifici dipinti dai cittadini all’indomani del crollo sovietico. Episodi isolati di riappropriazione dello spazio urbano che raccontano dell’individualismo e del tentativo simbolico di rompere con il grigiore del passato, ricolorando la realtà a cavallo tra due ere. Un discorso simile può essere fatto per Timeless (1995) che raffigura una serie di campanili senza orologi. Si tratta pur sempre di luoghi sospesi nello spazio-tempo della transizione, tra un passato le cui tracce sono ancora tangibili, e un futuro ancora terribilmente incerto.
Una parte cospicua della sua produzione artistica è dedicata alla comunità rom percepita come un corpo estraneo da buona parte della società ungherese e vittima anche di un apartheid artistico che la esclude dal giro ufficiale. L’acquisto da parte del Museo Ludwig di alcuni dipinti di Omar resta un’eccezione e gli artisti rom continuano ad essere snobbati da collezionisti e istituzioni museali di tutto il paese come ha denunciato più volte lo stesso Nemes.Il video Stand Here! (2010) mette in scena il dialogo tra due pupazzi, un nazionalista magiaro e un rom accusato ingiustamente dall’uomo di aver rubato della legna. Nella serie di 25 disegni Gyongyospata (2011), l’artista racconta con il disegno l’atmosfera di un villaggio balzato alle cronache per i pogrom anti-rom. Con pochi tratti di penna, Nemses è riuscito a raccontare senza fronzoli la complicità delle autorità e il clima intimidatorio creato dalle ronde della Guardia ungherese (Magyar Gárda), un’organizzazione paramilitare di estrema destra sciolta nel 2008.

La poetica di Nemes resta profondamente epica e didattica nella misura in cui l’artista mantiene sempre una distanza di sicurezza rispetto al soggetto. I testi che accompagnano spesso la sua produzione grafica commentano la realtà a mo’ di didascalie brechtiane. In alcuni casi essi offrono addirittura istruzioni per l’uso come nel caso del disegno-manifesto Plebeian Art! (2013) che offre consigli sulla produzione e la circolazione dell’arte dal basso.

Il verfremdungseffekt è ancora più forte nel video d’animazione Remake (2007) dedicato alle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della rivoluzione ungherese narrati secondo un’ottica di strada con uno stile da graphic journalism. Nemes non ha nemmeno paura di affrontare la globalizzazione in uno dei migliori cicli in mostra al MOCAK che rimanda, fin dal nome, ad un storico murales di Diego Rivera al MoMA. In Frozen Assets (2015) l’artista racconta con colori acrilici su legno le condizioni di sfruttamento dei lavoratori impegnati nella costruzione del Guggenheim di Abu Dhabi. Disposti nella bassa parta delle composizioni secondo una gerarchia «medievale», gli elmetti gialli di Nemes testimoniano l’esistenza di una casta operaia senza coscienza di classe o identità alcuna costretta a reggere simbolicamente tutto il capitalismo sulle proprie spalle.