Fa riflettere il modo in cui i principali quotidiani del nostro Paese guardano all’immigrazione. Anche Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 2 agosto («Sui migranti non servono sermoni»), pur tentando di rispondere alla critiche di chi protesta contro gli sbarchi e la nostra accoglienza, ritorna su un luogo comune, quello dei costi eccessivi della loro gestione, invocando addirittura il principio di uguaglianza tra migranti e italiani.

Il ragionamento è: l’Italia ha un’elevata disoccupazione e un livello crescente di povertà, è giusto concedere, alcune provvidenze a rifugiati e richiedenti asilo piuttosto che aggiungerne altre agli italiani? La soluzione avanzata è quella di erogare agli enti che si occupano di questi migranti un ammontare di beni e servizi pari a quelli che spendono nell’integrazione. Tale erogazione, per sortire gli effetti migliori, dovrebbe concludersi in tempi brevi e dovrebbe essere gestita dal governo centrale.

Riflettendo su questa visione qualcosa non torna. Siamo sicuri che la nostra disoccupazione e le politiche dell’accoglienza siano in contraddizione e non possano dialogare? È pensabile che i territori che attuano progetti di inclusione non siano ripagati, anche in termini economici, dalle attività che i progetti stessi vi pongono in essere? Non sono forse un investimento piuttosto che un onere? In realtà, guardando alle modalità attraverso le quali si struttura l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, quella più riuscita va in direzione opposta a quanto proposto da Galli Della Loggia e si ispira al principio di progettualità a medio o lungo termine e al protagonismo degli enti e delle associazioni locali. Che i migranti siano quel corpo estraneo che utilizza le nostre tasse è una retorica costruita da chi considera l’immigrazione una specie di zona rossa. Si veda quanto ha scritto su questo giornale il 30 luglio Alessandro Portelli.

Esistono presunte zone rosse dell’accoglienza in Italia, si chiamano Cara, Cda, Cpsa e Sprar, i primi tre sono centri governativi e l’ultimo è una rete di progetti territoriali. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 15 maggio 2015 gli stranieri inseriti nei circuiti italiani dell’accoglienza, volti quindi al riconoscimento dello status di rifugiato o del diritto di asilo, sono 73.705 e la spesa giornaliera ammonta a circa 2,6 milioni di euro. È difficile avere un’idea esatta dei costi che queste strutture assorbono per la varietà dei programmi e per il concorso di finanziamenti europei, locali e nazionali, ma si possono tentare stime più puntuali facendo riferimento al sistema Sprar, caratterizzato proprio dalla trasparenza della rendicontazione.

Sempre secondo i dati del Ministero dell’Interno sul territorio nazionale sono attivi 428 progetti afferenti appunto al Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, ai migranti spettano 2-2,5 euro al giorno e il resto delle risorse, poco più di 30 euro al giorno per migrante, finanzia un indotto virtuoso.

Sull’indotto virtuoso che questi interventi di accoglienza integrata riescono a mettere in moto vale la pena soffermarsi. Prima di tutto non sono una imposizione del Governo centrale, ma sono gli enti locali a richiedere su base volontaria di prendervi parte; in secondo luogo puntano alla promozione e allo sviluppo di reti e sinergie locali; infine si tratta generalmente di piccoli gruppi di migranti inseriti in piccoli centri e di percorsi di inserimento socio-economico il più possibile particolareggiati. Distogliamo un attimo la nostra mente dal percepire l’immigrazione come un fenomeno di massa drenante risorse pubbliche, come sacche di umanità parallela e guardiamo i numeri: circa 74.000 richiedenti accoglienza attualmente seguiti (stima per eccesso) su una popolazione di circa 60 milioni di persone (stima anche questa per eccesso); 8.092 comuni di cui il 70,5% con meno di 5.000 abitanti e con fenomeni di spopolamento, impoverimento e invecchiamento relativo della popolazione residente; tasso di disoccupazione nazionale pari al 12,7% e crollo della domanda di lavoro qualificato.

Mettendo insieme questi elementi trovare un spazio condiviso e non conteso, una zona permeabile e non rossa è possibile e gli Sprar ne sono un esempio. Essi rappresentano nei piccoli centri una risposta alla crisi occupazionale e di modello insediativo ed economico, generando richiesta di lavoro altamente qualificato (mediatori culturali, insegnanti, istruttori, psicologi), portando vitalità in centri storici in semi-abbandono, riscoprendo attività legate al territorio e fornendo nuova manodopera per le botteghe artigiane. È nei piccoli centri che l’integrazione può tornare a dimostrare il suo essere una dinamica interpersonale naturale.

Ad oggi è il Mezzogiorno – quello che lo Svimez ha appena descritto come esposto a un serio rischio di «sottosviluppo permanente» – a contribuire maggiormente con risorse, spirito di accoglienza e professionalità (vedi grafico)) e sono invece le grandi città e alcune Regioni del Nord, quali la Lombardia, la Liguria, il Veneto e la Val d’Aosta, a diffidare gli enti locali dal perseguire qualsivoglia pratica di inserimento.

C’è una ulteriore riflessione da fare sul sistema di protezione in esame e riguarda la dimensione progettuale degli interventi. Questa va a minare un’altra retorica legata all’immigrazione, quella dell’emergenza. La pianificazione è universalmente riconosciuta come uno strumento economico importante, fondamentale nel guidare lo sviluppo territoriale ma in materia di immigrazione acquista anche altri risvolti per nulla secondari, quali la tutela delle procedure democratiche e la possibilità di controllo pubblico. Alcune esperienze mostrano come un modello di inclusione sociale diverso e legato alle vocazioni territoriali sia possibile e incrementabile, un modello lontano dai riflettori mediatici (che raccontano solo storie di tensioni e razzismo) e al riparo dalla corruzione della cattiva politica e dalla speculazione di affaristi senza scrupoli.

L’immigrazione in Italia, fuori dalla solita retorica, può diventare una opportunità di rinascita sociale, di ridefinizione in positivo della geografia economica e di elaborazione di un discorso pubblico ispirato al rispetto della dignità umana e dei valori della Repubblica.