È stata ridicolizzata e banalizzata come l’ennesimo, inutile balzello. Forse è stata comunicata male, considerando l’italica insofferenza alle tasse di qualunque natura. Però la proposta di tassare prodotti alimentari ad alto contenuto di zucchero avanzata in casa M5S nasce nientemeno che da un’indicazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’esempio di diversi di stati, regioni e città dove è stata applicata con risultati anche significativi.

«LE CAUSE CHE STANNO DIETRO L’OBESITA’ sono complesse e sappiamo che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Quello che possiamo dire oggi, dopo aver analizzato gli effetti dell’introduzione di questa tipologia di tassa in diversi contesti e con diverse modalità, è che tassare i cibi poco sani può aiutare ad affrontare il problema dell’alimentazione scorretta, solo se affiancato da una politica complessiva che preveda anche limiti alla pubblicità, etichette nutrizionali più complete e facili da interpretare, educazione alla salute, maggiore attività fisica – ci dice Laura Cornelsen, professore associato in Public Health Economics (Economia della Sanità Pubblica) alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, che da anni studia l’applicazione delle tasse sui cibi malsani.

IN GRAN BRETAGNA, LA TASSA sulle bevande zuccherate (Soft Drink Industry Levy) introdotta nel 2017 prevede l’applicazione di aliquote diverse in base alla quantità di zucchero: le bevande con meno di 5 gr di zucchero per 100 ml (il 5% è l’optimum secondo l’OMS) non vengono tassate, mentre a quelle con maggiori quantità di zucchero viene applicata una tassa che va da 0,18 a 0,24 sterline al litro. Alle aziende sono stati dati 2 anni di tempo per adeguarsi prima dell’introduzione della tassa. Risultato? Una riduzione del 22% del contenuto di zucchero nei soft-drinks sugli scaffali: a molte aziende risulta più conveniente ridurre lo zucchero che pagarci una tassa.

Precedentemente, il Sugar Reduction Programme, un programma su base volontaria proposto dall’industria alimentare, aveva avuto come risultato una riduzione del 2,9% dello zucchero tra il 2015 e il 2018. Questo è uno dei casi in cui una tassa ben applicata fa accelerare le buone intenzioni dell’industria.

TUTTAVIA, L’EFFETTO SOSTITUZIONE è sempre in agguato: un rapporto pubblicato in settembre da Public Health England, agenzia governativa del ministero della Salute inglese, dimostra che negli ultimi 3 anni il consumo di zucchero da parte degli inglesi è aumentato, malgrado la messa in commercio di una serie di prodotti meno dolci. Questo si può spiegare con il fatto che, dopo aver bevuto una bevanda meno dolce, le persone indulgono più facilmente a snack zuccherati, molto consumati in Gran Bretagna. Chi è mai entrato in un qualsiasi negozio da quelle parti sa che l’offerta è strabiliante e trovare qualcosa di diverso non è facile.

IN FRANCIA UNA BEVANDA SULLE TASSE zuccherate è stata introdotta nel 2012: si tratta di aliquote basse (0,20 centesimi di € al litro, su una lattina incide per 0,07 centesimi) applicate anche alle bibite light, a più basso contenuto di zucchero. «È improbabile che questa tassazione possa avere effetti salutistici – commenta Cornelsen – i consumatori francesi non hanno incentivi a passare a bibite a più basso contenuto di zucchero. In linea generale può essere più efficace tassare lo zucchero come ingrediente invece che determinate tipologie di prodotti».

Succede che, se la tassa è relativamente bassa, il rincaro può venire assorbito in parte dai produttori e dai negozianti e non incidere sul prezzo finale dei prodotti: in questi casi lo stato si limita a fare cassa senza migliorare le abitudini alimentari. Per questo in Catalogna, comunità autonoma della Spagna, la tassa sulle bibite zuccherate introdotta il 1 maggio del 2017 è stata elaborata in modo che i rincari gravassero al 100% sul consumatore finale. Gli effetti documentati da uno studio dell’Università di Barcellona e dal Centro di Ricerca in Economia e Salute dimostrano che c’è stato un calo del consumo di bevande zuccherate del 22% e un aumento delle bibite zero/light: qui l’effetto sostituzione è andato nella giusta direzione. Interessante anche il fatto che la riduzione dei consumi delle bevande zuccherate è stata maggiore nelle zone non turistiche e in quelle con più alta incidenza dell’obesità.

SEMPRE PER RESTARE IN EUROPA, ancora diverso è il caso della Danimarca che ha provato a introdurre nel 2011 una tassa non sugli zuccheri ma sui grassi: 1,76 corone (0,24 €) imposta sui cibi con un contenuto in grassi superiore a 2,3%, ovvero carni, latticini, grassi animali e vegetali. Dopo soli 2 anni il governo ha fatto marcia indietro e la tassa è stata ritirata perché l’appetito danese per i grassi veniva soddisfatto andando a fare la spesa in Svezia o in Germania dove gli stessi prodotti costavano meno. Succede nei paesi di piccole dimensioni.

NEGLI STATI UNITI, LA PRIMA applicazione di una tassa sui soft-drinks è stata sperimentata nella città di Berkeley, 120 mila abitanti nella baia di San Francisco, probabilmente la più sinistrorsa delle città americane, tanto da essere considerata una specie di «repubblica autonoma». Qui il comune nel 2015 ha imposto una tassa pari a 33 centesimi di dollaro al litro. Tre anni dopo una ricerca pubblicata dall’American Journal of Public Health condotta dalla locale università – una delle più prestigiose università pubbliche degli Usa – ha documentato un calo dei consumi del 52%, in particolare nei quartieri più marginali dove più alta è l’incidenza delle malattie correlate all’alto consumo di zuccheri e in generale alla scorretta alimentazione, come diabete e malattie cardiovascolari.

SULL’ESEMPIO DI BERKELEY, anche i comuni di San Francisco e Oakland hanno introdotto una tassa simile e nel 2019 lo hanno annunciato pure Philadelphia e Seattle. La questione si fa seria nella patria della Coca-Cola, tanto che i governatori degli stati di California e Washington sono corsi ai ripari e si sono premurati di approvare leggi che vietano ai comuni di imporre ulteriori tasse, preannunciando un interessante braccio di ferro istituzionale proprio sui soft-drinks.

GLI EFFETTI VARIANO ANCHE IN FUNZIONE del contesto. In un paese ricco come la Finlandia un aumento dei prezzi dei soft drinks del 7% (2011) ha prodotto una riduzione minima della domanda, pari a 0,7%, invece, in uno paese in via di sviluppo come il Messico, l’aumento dell’Iva dell’8% sui cibi iper-calorici (patatine, dolci, cereali per colazione e bibite) ha portato a una riduzione dei consumi del 10% e all’aumento del 7% dei consumi di prodotti alternativi non tassati, come acqua minerale e latte.

Dalle varie esperienze si può dedurre quanto sia importante il ruolo della comunicazione nell’applicazione di tali provvedimenti. «Anche se non abbiamo dati precisi, credo che sia molto importante studiare una chiara strategia di comunicazione quando viene introdotta una nuova tassa – dice Cornelsen – che riguardi i prodotti, le etichette dei prezzi, gli scaffali ma anche che tipo di messaggio viene veicolato dai media e dalla pubblicità. Bisogna spiegare in modo chiaro ed efficace perché questi prodotti vengono tassati, in modo che il provvedimento serva ad orientare davvero i consumi. Inoltre i nostri studi hanno dimostrato che quando le tasse vengono destinate espressamente a programmi per la salute e la nutrizione, invece che alla fiscalità generale, vengono accettate meglio, perché destinate a una buona causa».

È CERTO CHE OLTRE ALLE TASSE, i governi o le municipalità possono fare molto altro per combattere i problemi della cattiva nutrizione, per esempio, limitare le licenze all’apertura di fast-food o take-away nelle vicinanze delle scuole, come si fa in Corea del Sud, e incentivare l’apertura di negozi che vendano cibi freschi. Negli Stati Uniti lo chiamano Nanny-state, stato balia: a leggere i dati sull’obesità ce ne sarebbe bisogno.