Hai voglia di raccontare anche a noi, con le tue parole, quando hai visto Tosini? «Dunque, la sera prima c’erano stati dei movimenti, dei rumori. Io e mia mamma ci siamo svegliati alla mattina che era ancora scuro. Era iniziato il disgelo ma c’era ancora mezzo metro di neve. La nostra finestra guardava proprio quell’olmo lì dove c’era il ferito, il sopravvissuto. Lui ha visto l’inquadratura della finestra. Ha visto la luce accesa. Ha iniziato a chiamare. “Signora! Signora! Borghesi! Borghesi! Aiuto, aiuto!” L’abbiamo visto. Siamo corsi giù. Siamo andati a prenderlo. Soffriva. La faccia bianca. Una gamba maciullata da una scarica di mitra. La giacca sotto il sedere. Era seduto lì sopra la neve. In maniche di camicia. Col sedere sulla giacca. La schiena contro il tronco».

Come ha fatto ad arrivare dal luogo dell’eccidio fino a vicino a casa tua?

«E’ quello che mi sono sempre chiesto anche io. Perché sono più di quattrocento metri. Io mi sono fatto una mia idea. Quando mi vengono a dire che lui da solo è venuto fin lì a casa mia a carponi, non ci credo. Lui da solo non arrivava fino a lì. Io l’ho visto come era messo. Come era la sua gamba. Non poteva. Vi dico come la penso io. E’ la prima volta che lo dico. Dunque, a Sant’Ilario d’Enza allora c’era un distaccamento della divisione Monte Rosa, quelli che erano stati fatti prigionieri in Germania. Chi firmava per l’adesione alla Repubblica di Salò, lo rispedivano in Italia. Quelli lì tutte le notti giravano. A me risulta che siano stati loro a portarlo vicino a casa mia. Forse lo dovevano uccidere? Non l’hanno ucciso. Perché neanche tra quelli della Repubblica di Salà mica tutti la pensavano nello stesso modo. Tanti erano aderenti alla Repubblica di Salò per interesse. Perché allora c’era poco da mangiare. Non c’era lavoro. Bisognava arrangiarsi. Dare da mangiare ai figli. Sono stati loro a portare il ferito lì vicino a casa mia».

Quando avete preso Tosini sotto l’albero, l’avete portato? «Dal campo alla carraia, fino al cortile della casa del contadino. Quella che sarebbe diventata mia suocera gli ha dato una tazza di caffè e latte caldo. Pian piano si è ammucchiata tanta gente. Ma poi se ne sono andati via tutti».

Come hai deciso di portare proprio tu il ferito in canonica? «Avevano fatto affiggere dei manifesti in cui si diceva che chiunque avesse aiutato dei partigiani sarebbe stato ucciso insieme a loro. Nessuno voleva portarlo. Allora mi sono fatto avanti io. Vado io», ho detto.

Come l’hai trasportato? «Con un carretto. Coperto da un panno. Io gli dicevo: “Stai coperto e taci, per cortesia. Poi gli ho detto: “Come ti chiami?”. E lui: “Oreste Tosini”. Poi ho detto: “Copriti e non piangere”. Perché piangeva, poveretto. Non ho detto altro. Perché quello non era il momento di parlare. C’era la Guardia Nazionale Repubblicana che girava sempre di qui e di là. Il ragazzo si è messo cheto. Ci siamo avvicinati alla via Emilia. E’ passato un camion tedesco. Ho pensato: “Mannaggia!”. Perché aveva rallentando. Allora ho fatto un sorriso falso al soldato alla guida. Una faccia sorridente. Una faccia di amicizia. Ho fatto un po’ l’attore. Allora il camion non si è fermato, ha ripreso ad andare veloce. E io ho pensato: “Meno male!” Sul Ponte Cantone il curato aveva distanziato le salme dei ragazzi perché io potessi passare con il carretto con sopra il povero Tosini. Appena sono arrivato alla canonica il parroco, non il curato, mi hai gridato: “Via! Vai a casa subito! Lascia qui il carretto e vai a casa di traverso!” Dopo la Guarda nazionale Repubblicana voleva sapere chi aveva portato in canonica il ferito. Ma per fortuna parroco e curato non hanno detto niente. Hanno detto che non lo sapevano».

Lo rifaresti? «Sì. Perché non si può vedere un giovane lì per terra soffrire così».