Fummo facili profeti, alla vigilia del recente Cinema Ritrovato di Bologna, a prevedere che la rassegna “Noir a Teheran: i thriller di Samuel Khachikian”, curata dal critico iraniano Ehsan Khoshbakht, sarebbe stata uno dei tasselli più importanti del ricco programma del festival. Del regista non avevamo ancora visto nulla (cosa che può spaventare solo chi è complice nel non voler scoprire le cose, anziché dare visibilità alle troppe zone oscure della storia del cinema), ma delle scelte di Khoshbakht potevamo ormai fidarci: tre anni fa realizzò qui a Bologna un programma memorabile del mancato nuovo cinema iraniano represso dallo Scià, in cui emerse la figura somma di Sohrab Shahid Saless; l’anno scorso ci fece incontrare, anche invitandolo a Bologna il grande Ebrahim Golestan, che fu inoltre produttore dell’unica regia dell’amata, sublime Forugh Farrokhzad. Quest’anno, come nei casi di Farrokhzad e Shahid Saless, ci ha di nuovo proposto un cineasta scomparso, Samuel Khachikian, iraniano di origine armena, che dai massacri subiti dagli armeni traeva ispirazione e fu attivo nel cinema di genere degli anni 50 e 60, brevemente tornato alla regia nella repubblica islamica, e deceduto nel 2001. Solo quattro film, tra i più amati dal regista, realizzati tra il 1955 e il 1964, e uno solo di questi, il primo, in pellicola 35mm, gli altri tre in digitale. Ma aver coinvolto in questa collaborazione l’archivio iraniano è evento di valore storico, e conferma che oggi, per un festival internazionale degno del suo ruolo, una grande retrospettiva del cinema iraniano sarebbe la massima priorità assoluta, casomai ex aequo con un’altra grande cinematografia dispersa, quella filippina. Di recente questo inserto si era occupato di una cinematografia addirittura totalmente distrutta, quella cambogiana. Nel caso filippino la scomparsa di copie in pellicola è stata massiccia, ma c’è qualche speranza di ritrovare e ristampare dei negativi. Nel caso iraniano le speranze crescono perché l’archivio (come è accaduto per la collezione di arte moderna voluta dall’imperatrice Farah Diba, ora emersa in mostre internazionali) sembra aver attraversato indenne le vicende storiche, anche se ovviamente deve mediare con le leggi imperanti.

Ed è emblematico quanto avvenuto in questo caso a Bologna: la copia in pellicola è pervenuta senza l’inquadratura del bacio (il primo bacio della storia del cinema iraniano, nel 1955), e se la responsabilità non fosse forse di un remoto proiezionista nello spirito dei furti truffautiani, il taglio è stato probabilmente di cautela odierna, prima di spedire la copia a Bologna. Il curatore ha rilanciato facendo vedere prima della proiezione una foto del bacio tagliato, e la proiezione si è trasformata in una sublime performance, certo anche frustrante ma tuttavia vitale.

Cosa si aspetta dunque a favorire quella duttilità che ogni regime (salvo forse, appunto, Pol Pot, mentre persino la Corea del Nord sembra propensa a cercare mediazioni nella propria immagine internazionale) a un certo punto concede? Una retrospettiva iraniana, ampia come furono i disgeli cinesi curati da Marco Müller e Roberto Turigliatto, quelli sovietici rivelati da Gianni Buttafava e Bernard Eisenschitz, e quello tedesco-democratico ancora solo adombrato, farebbe certamente scoprire meraviglie. Proprio un autore come Khachikian, notevole ma (a differenza di Farrokhzad, Golestan e Shahid Saless) non massimo, fa cogliere al meglio come il cinema iraniano fosse notevole anche nelle punte che sorgono dal livello medio.

I film noir di Khachikian sono impregnati di cinema americano, ma mai in senso imitativo, bensì con una vena tra lo sperimentale e il debordiano. Il primo film visto, Chahar rah-e havades (L’incrocio degli eventi), rimanda già nel titolo a un ulmeriano Detour prolungato all’infinito, e anche in un film successivo del regista inseguimenti e incidenti di macchina costituiscono un nucleo amplificato. Oltretutto le musiche di tutti i quattro film sono composizioni costituite di micro-citazioni da film di successo americani, da Hitchcock a Chaplin. Questo film, forse il più bello dei quattro visti, e nonostante la frustrazione del bacio rubato, è quasi incomprensibile nella trama anche se visto coi sottotitoli, per cui gli altri li abbiamo visti in originale farsi non tradotto, e non ne abbiamo capito di meno. Dato che si è trattato di film di grande successo in Iran, ciò smentisce ancora una volta le banalità del “cinema popolare”: il cinema trova insomma penetrazioni comunicative anche impreviste purché scattino folgorazioni nel rapporto col pubblico. E quest’opera è tutta una folgorazione, non si ferma mai ad amministrare un racconto.

Il successivo Toofan dar shahir-e ma (Tempesta sulla nostra città) porta un altro titolo collegante catastrofe e anfibologia dell’Unheimliche, con un inseguimento alla Feuillade in sotterranei che furono storicamente luoghi di tortura, divenuti nella finzione manicomi, e fu girato con una cinepresa che dopo 25 secondi prendeva fuoco, e perciò ogni inquadratura è sotto questa durata. Eppure il film dilata i tempi fino ai 102 minuti.

L’universo di mostri di questo film ha costituito un ideale double-bill col più bel film visto quest’anno a Bologna, il remake sonoro di Tod Browning del proprio Outside the Law dove una delle massime “femmine folli” della storia del cinema, la misconosciuta, sublime Mary Nolan crea una presenza di isteria continua. Browning in questo film raggiunge Leo McCarey nella grandezza all’interno del momento forse più splendido di tutta la storia del cinema, quello del primo sonoro agli inizi degli anni 30. Con Mary Nolan i coprotagonisti Edward G. Robinson e Owen Moore sono anch’essi dei freaks senza trucco. A vedere un film così “fuorilegge” (come sottolinea il titolo) non si può che giungere alla conclusione che David Lynch ha ancora molto da imparare. Più sembra aver imparato, anche senza forse aver visto Browning, il regista iraniano qui rivelatosi.

Il terzo e il quarto film di Khachikian programmati, Delhoreh (Angoscia), che ripete il titolo del Cukor ultra-hitchcokiano, e Zarbat (Colpo), sono in fondo un dittico: entrambi variano sulle situazioni di I diabolici di Clouzot, e il primo si conclude addirittura rifacendo il finale di un altro Clouzot, Il corvo. Come spesso succede in questi casi, la variazione eccede il modello: i film, pur sembrandoci più iterativi che scatenati, a differenza dei primi due in programma, non rinunciano a azzardi sperimentali: il primo per esempio è stato girato a 22 fotogrammi al secondo per ottenere, nella proiezione a 24, un effetto di accelerazione sul dialogo, cosa che a Hollywood forse Howard Hawks avrebbe desiderato.

Anche qui assistiamo a inseguimenti, accenni di numeri musicali sexy di cui rimangono dettagli di piedi feticizzati oppure figure in fondo campo. e presenze femminili oscillanti tra forza e debolezza, eccedendo appunto Clouzot in una sorta di spirito cormaniano.

Impossibile quindi non ringraziare Khoshbakht per questo programma breve ma intenso, tra i più importanti nell’offerta dei festival internazionali. Il critico osserva nel catalogo che i successivi film del regista hanno proceduto in declino, ma certo saremmo tentati di vederne qualcuno, sia tra quelli dell’ultima fase pre-khomeinista in cui pare che il cinema di genere avesse accentuato l’erotismo, sia tra quelli del tardo ritorno in regime islamico, in cui ci si domanda come egli potesse filmare volti coperti dal chador e baci proibiti. Ma è chiaro che il cinema iraniano (e, potremmo dire, la realtà iraniana) hanno la capacità di rispettare obblighi di censura facendosene una diversa forza. Viene da pensare a certe foto di belle elettrici che gioiscono ai risultati delle recenti elezioni iraniane: volti in cui il sorriso, la luce dello sguardo, i capelli che emergono dal velo, creano pura flagranza, dicendoci che il corpo c’è e che nessuna religione (come Dreyer e Canetti insegnano) può occultarlo.