In politica i colpi di scena sono sempre possibili, ma tutto indica che la partita sul caso Salvini-Diciotti si sia chiusa ieri. Il premier è andato oltre la semplice assunzione di corresponsabilità, attribuendosi un ruolo quasi da mandante. Di Maio, all’inizio più dubbioso, si è quasi bruciato ogni ponte alle spalle. Per la prima volta inizia persino a trapelare insofferenza nei confronti dei pentastellati rigidi che continuano a invocare i «princìpi» per reclamare un voto a favore dell’autorizzazione.

Nella sterzata dei 5S hanno certamente pesato e peseranno fino al momento dell’ultimo voto diversi elementi: la propensione della maggioranza dei senatori a evitare la rottura, la consapevolezza che una buona parte dell’elettorato non apprezzerebbe il voto contro Salvini, la necessità di non offrire a un competitor già sin troppo sulla cresta dell’onda una facile e potenzialmente micidiale arma propagandistica. Ma senza dubbio quel che incide più a fondo è la necessità di evitare una crisi di governo.

Non era un elemento scontato in partenza. Da mesi M5S subisce l’iniziativa della Lega e assiste a un crescente travaso di consensi. E’ il socio che paga mentre il compare guadagna. Il voto sull’autorizzazione a procedere sarebbe stata, ove i 5S l’avessero cercata, la migliore occasione possibile per sottrarsi all’abbraccio mortale. Il Movimento avrebbe confermato la fedeltà integrale ai princìpi fondativi, smentito ogni subalternità a Salvini, rassicurato quella parte della base che si sente ogni giorno più smarrita.

Prevale l’obbligo di blindare quanto più possibile il governo e anzi, la tendenza, inizialmente timida, ha preso slancio negli ultimi giorni. E’ possibile che i 5S abbiano percepito la manovra d’accerchiamento che si sta dispiegando contro di loro. I fatti parlano da soli: prima la minaccia europea di chiedere il rimborso dei fondi già stanziati per la Tav, un assist prezioso per la Lega. Poi l’uscita del capo dello Stato, mai prima così esplicito e duro, contro la neutralità, imposta dai 5S e contrastata da Salvini, sul Venezuela. Quindi un colpo micidiale sui conti pubblici da parte della Ue che ha di fatto rotto la tregua firmata in dicembre bersagliando quella stessa manovra alla quale aveva concesso, in cambio di clausole capestro, il semaforo verde meno di due mesi fa. E’ significativo che l’obiettivo principale dell’attacco non sia quota 100, come nei mesi del braccio di ferro con l’Europa, ma il cavallo di battaglia pentastellato, il Reddito di cittadinanza.

Infine la mossa molto sopra le righe decisa ieri da Macron, quella convocazione dell’ambasciatore a Roma che pare fatta apposta per esasperare ad arte la tensione, è stata spiegata non con un’intemerata dell’arcinemico Salvini, che stavolta si dice anzi pronto a incontrare Macron, ma con le dichiarazioni dei 5S e soprattutto con l’incontro di Dibba e Dima con un esponente dei gilet jaunes. Sono molti i potenti che tra il ringhioso leghista e gli incontrollabili 5S hanno scelto il primo e già non vedono l’ora di liberarsi dei secondi.

Solo che proprio Salvini è il primo a non condividere tanta fretta. Ieri, nella conferenza stampa congiunta dei sedicenti leader di centrodestra in Abruzzo, si è smarcato ogni volta che Berlusconi ha cercato di incastrarlo in un impegno a riproporre su scala nazionale l’alleanza. Ha ripetuto che farà «il ministro degli Interni per cinque anni». Che ci creda e che lo voglia davvero è poco credibile, ma di certo ritiene che l’assetto attuale sia ancora il migliore per lui e non è affatto detto che si sia dato davvero, come da opinione comune, le elezioni europee come deadline. Non solo un ribaltone che permetterebbe alla destra di governare senza passare per le elezioni ma anche un governo postelettorale basato sull’alleanza con una Fi pur ridmensionata non è nei suoi interessi immediati. La doppia opera di prosciugamento dei consensi, nei confronti di Fi e dei 5S, ha bisogno di tempo. Ma con uno spread che ieri è balzato a 285 punti, una partita con l’Europa di fatto già riaperta e con i 5S sempre più invisi alle centrali economico-finanziarie italiane ed europee non è affatto detto che quel tempo gli sarà concesso.