stato fin troppo facile evidenziare la contraddizione dei cortei di decine di suv iper-blindati e iper-inquinanti che lo scorso fine settimana hanno attraversato Roma per portare i «potenti della Terra» a discutere di lotta all’inquinamento e ai cambiamenti climatici al G20. Per non parlare dell’affollamento nei cieli di Glasgow degli aerei che hanno portato alla Cop26 sul clima quegli stessi «20 Grandi» più i rappresentanti degli altri Paesi.

A Roma erano riuniti i leader delle maggiori economie mondiali, responsabili del 78% delle emissioni globali di gas serra. Una responsabilità enorme, così come è enorme il loro potere di incidere, ma purtroppo, per l’ennesima volta, è mancato il coraggio di limitare l’aumento della temperatura globale.

Il vertice di Roma avrà pure mandato alcuni segnali, ma per quanto tempo questi Grandi continueranno a mandare segnali, invece di adottare le misure necessarie per quel cambio di passo indispensabile?

Al G20 qualche passo avanti più concreto si è fatto nel campo dell’azione per fermare la perdita di biodiversità entro il 2030, passaggio fondamentale per proteggere la salute e quei servizi ecosistemici da cui dipende la vita.

Per esempio l’impegno preso di piantare mille miliardi di alberi entro il 2030, se attuato in modo inclusivo ed efficace (piantare nei punti giusti e con il coinvolgimento delle popolazioni), potrebbe dare un contributo significativo al Decennio delle Nazioni Unite sul ripristino degli ecosistemi che mira a prevenire e invertire il loro degrado in ogni continente e negli oceani. Ma gli sforzi per ripristinare gli ecosistemi forestali devono andare di pari passo con una rapida decarbonizzazione e con il blocco della deforestazione che continua a procedere a tassi allarmanti: tra il 2004 e il 2017 43 milioni di ettari di foreste (un’area equivalente al Marocco) sono andati persi solo nei tropici e nei subtropici.

Ed è positivo poi che a Glasgow una delle prime misure adottate sia stata la sottoscrizione, da parte di oltre 100 Capi di Stato, della Dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo che impegna gli Stati ad arrestare e invertire la perdita di foreste e il degrado del territorio entro il 2030, prevedendo di impiegare 12 miliardi di dollari di investimenti pubblici per proteggere le foreste insieme a 7,2 miliardi di dollari di investimenti privati.

Dopo Roma, a Glasgow ci si aspetta che arrivino impegni climatici ambiziosi con scadenze certe, che si adottino azioni specifiche affinché natura e clima siano tenuti in considerazione in tutti i settori dell’economia. Sarebbe da incoscienti rinviare ancora. Spesso, infatti, si parla dei costi della transizione ecologica, trascurando i costi della mancata transizione. Qualcuno ha paragonato la transizione ecologica ad un «bagno di sangue», quasi che l’attuale modello di sviluppo costellato di enormi disparità, distruzione di habitat, danni alle stesse attività umane, migranti climatici, continue emergenze, centinaia di migliaia di morti per fenomeni meteo estremi e inquinamento, sia una «passeggiata di salute»: i cambiamenti climatici e la perdita di natura hanno invece costi altissimi che stanno ad indicarci l’urgenza di cambiare rotta.