«Aulnay Story» potrebbe essere il titolo di una serie tv. Invece è la cronaca di una chiusura annunciata nel 2012, quella dello stabilimento Peugeot-Citroën di Aulnay-sous-Bois, pochi chilometri a nord di Parigi, raccontata quotidianamente da una giornalista e un regista di France2. È la storia della famiglia Peugeot, una delle più ricche di Francia, e del gruppo Psa, colosso dell’industria automobilistica nazionale, che l’anno scorso ha presentato un progetto di ristrutturazione aziendale che prevede la soppressione di 11.200 posti di lavoro entro il 2014, inclusi i 2.800 operai di Aulnay. Ed è la storia di questi operai, che hanno trascorso dieci, venti o perfino quarant’anni in fabbrica. Centinaia di loro, da gennaio a maggio, hanno portato avanti uno sciopero di 18 settimane contro il piano dalla direzione – il Pse, cosiddetto Plan de sauvegarde de l’emploi – che si è concluso con un accordo di compromesso poco soddisfacente a detta di molti. Non è una storia a lieto fine, ma è la storia di una lotta testarda contro la fatalità dei licenziamenti in un paese in cui, secondo le statistiche dell’Insee, il numero dei disoccupati cresce al ritmo di 1.500 al giorno.
Arfaoui, sessant’anni, è a Aulnay dal 1974 – lo stabilimento era stato inaugurato nel 1972 – e da allora non ha mancato uno sciopero. Prima le sei settimane nel 1982, poco dopo l’elezione di Mitterand, al termine delle quali i lavoratori erano riusciti ad ottenere quello che volevano (400 franchi in più e, soprattutto, la libertà sindacale). Poi le tre settimane di occupazione nel 1984 contro la minaccia dei licenziamenti, e ancora gli scioperi del 2005 e del 2007 per l’aumento dei salari. L’ultimo, quello di quest’anno, è stato lo sciopero più lungo nella storia della Citroën e uno dei più lunghi del movimento operaio in Francia.
«Quando sono entrato a Aulnay, insieme a centinaia di operai immigrati che venivano reclutati dalle mie parti, nel Sahara Occidentale, non era necessario saper leggere né scrivere e nemmeno parlare francese. Anzi, essere analfabeti era meglio», racconta Arfaoui. «Durante i colloqui ci chiedevano se eravamo interessati alla politica, o se avevamo qualche affiliazione a partiti e sindacati. Noi sapevamo di dover rispondere di no e l’interprete che ci traduceva quel punto diceva soddisfatto: questo va benissimo, non capisce niente». Un altro test prima di essere assunti consisteva nel sollevare per 10 minuti due sacchi di sabbia di cinque chili con le braccia tese. «Se ce la facevamo era fatta», ricorda Arfaoui. «All’epoca non c’erano i robot, si faceva tutto a mano. I robot eravamo noi, che lavoravamo e basta e guai a protestare. Vivevamo in un dormitorio Citroën, sorvegliato da un guardiano che alle 20.30 ci mandava tutti a letto. Ogni giorno il pullman ci portava in fabbrica e poi a casa. Non c’era altro. Per questo se non avessi cominciato a scioperare sarei morto».

È vero che molto è cambiato da allora e la fabbrica di Psa-Aulnay non somiglia all’inferno filmato da Louis Malle nel 1972 in Humain, trop humain. Il documentario, girato nello stabilimento Citroën di Rennes e volutamente muto, lasciava parlare la fatica dei gesti e le macchine assordanti. La telecamera di Malle seguiva con una lentezza esasperata la frenesia monotona degli operai alla catena di montaggio; ora, però, che non si avvita più niente a mano, sono ancora le macchine a scandire il ritmo e la monotonia è identica.
Durante lo sciopero, invece, c’è un silenzio insolito a Aulnay. La catena è sospesa, le macchine spente, solo le ventole sono in funzione. Per chi non è abituato il perimetro della fabbrica (170 ettari delimitati da due autostrade e una ferrovia) è uno spazio incommensurabile. La segnaletica ridondante aiuta a prendere le misure – indica i percorsi pedonali, i sensi di marcia e la velocità massima di 10 km/h consentita alle automobili in circolazione. In questo limbo del non-lavoro, in cui non accade nulla, Aulnay ha perfino qualcosa di spettrale, nonostante la radio accesa che trasmette musica anni Ottanta, il tè alla menta e gli operai che giocano a pallone o a dama con i bulloni nell’atrio vicino all’ingresso. Non è un luogo pensato per la flânerie. «Quando siamo al lavoro, è tutta un’altra cosa – assicura Florian, originario della Guadalupa, 15 anni a Citroën di cui la maggior parte nella logistica – adesso è un posto irriconoscibile». Florian non ha mai lavorato alla catena di montaggio e si ritiene fortunato. «Di solito ci mettevano i giovani appena arrivati e ora ci mettono gli interinali; è dura lì. Al momento non si muove nulla perché abbiamo bloccato tutto – spiega indicando il tabellone che tiene il conto delle unità prodotte – ma normalmente da qui escono settecento C3 al giorno».

A gennaio i lavoratori in sciopero erano circa cinquecento, per lo più uomini sulla quarantina e molti di origine nordafricana. Nelle assemblee si discute delle comunicazioni che arrivano dalla direzione, si vota per continuare la mobilitazione, ci si organizza per chiedere fondi di solidarietà alle municipalità della zona e per fare le casse di sciopero davanti ai supermercati, nei centri commerciali o ai caselli autostradali. «Si chiama “operazione pedaggi gratuiti”», spiega Manu, ex giocatore di rugby, sulla trentina, che lavora da una decina di anni alla verniciatura: «Alziamo le sbarre ai caselli e facciamo passare le macchine; in cambio chiediamo che ci diano qualcosa per sostenere lo sciopero». Così in quattro mesi sono stati raccolti quasi 900 mila euro che hanno permesso ai lavoratori di portare a casa uno stipendio decente, ognuno in base alla giornate di attività, ovvero le giornate di presenza in fabbrica registrate sulla tessera di sciopero.
Patrick è stato trasferito ad Aulnay otto mesi fa, dopo la chiusura della fabbrica di Melun, e ne ha passati quattro a scioperare. «La cassa è stata una mano santa. I primi tre mesi ho preso quasi più di quello che prendo normalmente, ma è anche vero che ho lavorato più del solito: tutti i giorni qua dall’alba alle cinque e a volte fino a notte», dice ridendo. «A marzo sono arrivato a 1.300 euro, una cifra enorme. A maggio invece c’è andata a male, ma eravamo rimasti in pochi e stanchi. Fare sciopero svogliatamente, in effetti, non ha senso. Per questo da subito abbiamo stabilito di prendere le presenze, perché non serviva a niente scioperare da casa». In assemblea, e a volte in comitati più piccoli, si decidono le “azioni” del pomeriggio, che però devono restare il più possibile segrete. In quattro mesi gli operai di Psa non hanno smesso di fare incursioni dove non erano stati invitati. Hanno occupato per ore i locali dell’Uimm, la Federmeccanica francese, e la sede del Medef, la Confindustria; hanno guastato la festa a Arnaud Montebourg, il ministro del risanamento produttivo, durante un’inaugurazione a Gare de Lyon e hanno preso la parola al consiglio nazionale del Partito socialista, ad aprile, per accusare Hollande di «tradimento». Infatti il 14 luglio 2012, due giorni dopo l’annuncio da parte di Psa del piano di ristrutturazione aziendale, il presidente della repubblica in tv aveva definito «inaccettabile» la chiusura di Aulnay – la prima chiusura di una fabbrica di quelle proporzioni a vent’anni dallo smantellamento di Renault-Billancourt nel 1992 – e aveva promesso che «lo Stato non l’avrebbe consentita». Otto mesi dopo, la morte di Aulnay (insieme ai licenziamenti di massa a Sanofi, Goodyear, Arcelor-Mittal, Renault, Virgin e Air France) pesa come un macigno sulla popolarità di Hollande e dei socialisti.

Molti operai speravano nella mediazione del governo e alcuni perfino nel buon senso di Psa. La crisi – la peggiore degli ultimi dieci anni, il calo delle vendite sotto due milioni di auto, la riduzione della produzione di 500mila unità all’anno dal 2007 e le fabbriche ormai in funzione a meno dell’80% delle capacità – erano tutte cose note da tempo, e non solo agli addetti ai lavori. Ma quando a giugno del 2011 un delegato della Cgt che lavorava negli uffici della direzione si era imbattuto per caso in un documento che illustrava il progetto di chiusura di tre stablimenti europei (Madrid, Sevel Nord e Aulnay) e il sindacato aveva lanciato l’allarme, in pochi pochi avevano dato credito alla notizia, peraltro subito smentita dall’alto. Perciò, a distanza di un anno, l’annuncio della fine inesorabile di Aulnay da parte di Philippe Varin, dal 2009 alla guida di Psa, è arrivato come una doccia fredda. «Adesso ci hanno promesso che non perderemo il posto e che verremo trasferiti in altri stabilimenti o ricollocati in altre aziende, ma stavolta faccio fatica a credere che andrà tutto liscio», spiega Jerome, da quasi vent’anni in fabbrica. Nel suo reparto, la finitura elettrica, illuminato da una luce al neon prepotente, arrivano le macchine assemblate ma difettose; Jerôme insieme al resto della squadra le ripara. È fiero del suo lavoro e di tutta la fabbrica: «Non capisco come abbiano potuto pensare di chiudere Aulnay. Siamo sempre stati i migliori. L’80 per cento delle macchine che escono da qui sono perfette, a Poissy non superano il 56 per cento. Ora se finiremo tutti là ci sarà da ridere perché si lavora troppo e male».
Poissy è lo spauracchio di tutti i lavoratori di Aulnay. Chi viene da lì ne sa qualcosa e chi non c’è mai stato ne ha sentito parlare. Come Aulnay negli anni ‘70, prima cioè della conquista dei diritti sindacali, era una fabbrica-modello (o un gulag, a detta di alcuni), così Poissy oggi è la nuova frontiera dell’abbattimento di quegli stessi diritti. «Se potessi scioperei», dice Jerôme, che però non ha mai smesso di lavorare. José prende la palla al balzo: «E allora perché non scioperi?». Figlio di immigrati spagnoli, cresciuto in banlieue, Josè lavora dal 1991 alle carrozzerie e da sempre è alla Cgt, il sindacato che ha promosso lo sciopero e l’unico dei sei rappresentanti dei lavoratori che a fine aprile ha rifiutato di firmare il Pse. Sempre in giacca e camicia ha scioperato dal primo all’ultimo giorno. «Noi non smettiamo mai di provare a convincere gli altri», ammette. «La direzione ci accusa di intimidazione, ma tentare è il minimo. Molti sono d’accordo, però non se la sentono di passare dall’altra parte, pensano che sia rischioso. E allora niente, non si può fare sciopero per procura».

Fin dalle prime settimane la mobilitazione è stata appoggiata passivamente anche da chi non scioperava. Quasi un terzo dei lavoratori in servizio si è messo in malattia per facilitare il blocco totale della produzione, e nessuno degli altri ha mai forzato i picchetti che paralizzavano la catena. L’azienda, da parte sua, ha fatto di tutto per dividere la fabbrica e trasformarla in una trincea: a gennaio, dopo la prima settimana di sciopero, con la scusa di un guasto tecnico, ha ordinato la serrata dello stabilimento per alcuni giorni, a febbraio ha mandato a Aulnay un esercito di rinforzi – quasi duecento tra capi, quadri e interinali provenienti da altri stabilimenti – per rimettere in moto le macchine (senza successo) e per far pressione sui lavoratori in modo che la mobilitazione non si espandesse. Per varie settimane anche i rinforzi sono stati costretti a rimanere fermi. Gli operai li chiamano «vasi di fiori», perché «stanno lì immobili e ti guardano. O al massimo vengono a dirti che se non sei in tuta non puoi andare in giro per motivi di sicurezza», spiega sorridendo Ghislaine, 50 anni, unica donna del reparto carrozzeria e una delle poche iscritte al Sia – il sindacato indipendente dell’automobile, cioè il sindacato giallo – a partecipare allo sciopero. «Il pezzo forte però sono loro – aggiunge indicando le guardie private che Psa ha reclutato per sorvegliare i picchetti – che ci tengono d’occhio dalla mattina alla sera e poi ci mandano in tribunale se tiriamo un uovo o se diciamo le parolacce».

Dopo diciotto settimane di mobilitazione il morale non è più alle stelle. Anche scioperare stanca. Ormai sono rimasti in poco meno di duecento, la fabbrica ha ripreso a produrre al rallentatore (qualche decina di auto ogni giorno) e le trattative con la direzione procedono a ribasso. Il 17 maggio l’assemblea vota la revoca dello sciopero: l’accordo prevede un bonus di 20 mila euro oltre agli indennizzi inclusi nel piano (40 mila euro) per gli operai che accettano di lasciare il lavoro entro fine maggio; un sussidio economico per il trasferimento e la garanzia di essere ricollocati negli stabilimenti Psa o altrove, per tutti gli altri; il reintegro amministrativo di quattro lavoratori licenziati ingiustamente per colpa grave durante lo sciopero, insieme alla cancellazione di tutti provvedimenti penali e disciplinari intrapresi. 
Alla fine «né vincitori né vinti», secondo Jean-Pierre Mercier, dirigente della Cgt, militante di Lutte ouvrière e leader della lotta a Psa Aulnay. Nonostante l’aria pacata e professorale è considerato un “duro” dalla stampa francese. In un’intervista su Liberation rilasciata dopo la fine dello sciopero Mercier ha dichiarato che malgrado la partita fosse di proporzioni smisurate, era valsa comunque la pena giocarla «perché le battaglie perse sono soprattutto quelle che non vengono combattute».
Per Agathe, anche lei alla Cgt e una dei quattro licenziati poi reintegrati, non si poteva fare più di quello che è stato fatto: «Noi ne siamo usciti a testa alta e l’azienda ha perso 700 Citroën C3 al giorno per quattro mesi. E non è finita». Il primo giugno, infatti, un’ottantina di operai che fino a quel momento non aveva scioperato ha sospeso la produzione per chiedere l’estensione delle stesse condizioni a tutti i lavoratori di Aulnay. «Ci sono riusciti. È la prova che questi mesi di lotta hanno lasciato il segno».

Il 31 maggio è stato il giorno dell’addio a Psa per 130 lavoratori che hanno scelto le dimissioni incentivate. È stato organizzato un barbecue sul prato per festeggiare la partenza, ma dopo anni di fabbrica – e mesi di sciopero – andarsene non è una festa. Nel parcheggio davanti ai cancelli gli operai si salutano e molti si commuovono. «Aulnay è un posto speciale – dice Ghislaine – qui eravamo noi, gli operai, a fare la fabbrica e non il contrario. Peccato sia andata così». José è piuttosto demoralizzato: «Abbiamo firmato un accordo di merda: volevamo impedire la chiusura dello stabilimento e ce ne andiamo con un indennizzo maggiorato. Non è facile dire l’ultima parola adesso, ma credo che avremmo potuto fare di più. Sarebbe stato necessario riuscire a mobilitare i lavoratori di tutta l’azienda e fare fronte comune con le altre vertenze in corso contro le ristrutturazioni d’impresa, ce ne sono molte. E ci voleva un appoggio più deciso da parte della sinistra radicale. Certo, da soli non potevamo andare lontano».
Fino all’ultimo José è stato indeciso, poi ha scelto di rimanere in Psa e chiedere il trasferimento a Saint-Ouen, sapendo che forse sarà solo un parcheggio temporaneo in attesa che venga smantellato anche questo stabilimento. È un modo per continuare a battersi contro i licenziamenti e traghettare l’esperienza di questo sciopero in un’altra destinazione. L’azienda, infatti, ha già convocato i sindacati per lanciare il futuro patto di competitività che contempla, tra le altre cose, un’ulteriore riduzione delle quote di produzione e, prevedibilmente, nuove chiusure. Per chi è rimasto, forse, sarà perfino l’occasione per ricominciare a scioperare. Mentre Aulnay tra qualche mese chiuderà per sempre.