«A causa della carenza di sali e fluidi nel suo corpo, Maher ha crisi frequenti, mal di testa acuti, vista e udito deboli, oltre a un forte dolore in tutte le parti del corpo, in particolare al petto».

Così lunedì Addameer, storica ong palestinese per la tutela dei prigionieri politici, descriveva le condizioni fisiche di Maher al-Akhras. Detenuto in un carcere israeliano dal 27 luglio scorso, Maher non tocca cibo da allora.

Ieri sono trascorsi 100 giorni dall’inizio dello sciopero della fame del 49enne, sei volte padre, allevatore di Silat al Daher (vicino Jenin), ricoverato da settimane nel centro medico Kaplan della prigione israeliana di Ofer.

La situazione sta degenerando, avvertono da tempo i palestinesi, alla cui voce si sono unite negli ultimi giorni anche quelle delle istituzioni internazionali. Il 23 ottobre scorso il relatore speciale delle Nazioni unite per Israele e Palestina, Michael Lynk, ne ha chiesto l’immediato rilascio per la mancanza di accuse chiare contro di lui, mentre la Ue si è detta preoccupata per l’uso eccessivo della detenzione amministrativa da parte israeliana.

Una settimana fa era stato l’inviato speciale Onu Nickolay Mladenov a riportare al Consiglio di Sicurezza la necessità di fare pressioni su Israele per cessare il ricorso alla misura cautelare.

Ieri è intervenuto Osama Saadi, deputato della Knesset israeliana per la Lista araba unita: «Lo sciopero di al-Akhras è diverso dai precedenti. Rifiuta le vitamine, il sale e ogni forma di trattamento medico. È il più lungo sciopero di questo tipo».

Da Israele, al momento, non giungono aperture: lo scorso 25 ottobre la Corte suprema israeliana ha rigettato l’appello presentato dall’avvocato di al-Akhras per un rilascio immediato. O meglio, ha mosso una sorta di controproposta: il congelamento dell’ordine di detenzione amministrativa (che dovrebbe scadere il prossimo 26 novembre) ma non la sua cancellazione.

Il significato lo spiega, ancora, Addameer: «La decisione della Corte non elimina il rischio di un rinnovo dopo la scadenza dei quattro mesi di detenzione amministrazione e dimostra l’intenzione di prolungare la detenzione a ogni costo».

Da cui la decisione di Maher di continuare a rifiutare il cibo, per uscire dal circolo vizioso del carcere: dal 1989 al-Akhras è stato arrestato quattro volte e ha speso in detenzione amministrativa quasi cinque anni della sua vita. Stavolta l’accusa è di essere un membro della Jihad Islamica, accusa che lui rigetta.

La richiesta dell’uomo è la stessa dal 27 luglio: la fine della sua detenzione amministrativa e dell’uso strutturale della misura da parte di Israele. Introdotta nel 1967 e ripresa dal sistema legislativo del mandato britannico, la detenzione amministrativa permette il carcere senza processo e senza accuse formali, ordinata dall’esercito sulla base di file segreti in cui si dice convinto dell’insita pericolosità di una persona nei confronti dello Stato di Israele.

Una minaccia teorica che si traduce nel carcere a tempo indeterminato: l’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile senza limiti, per questo il diritto internazionale ne autorizza l’uso solo per tempi brevi e in caso di estrema emergenza.

Il caso di Maher non è affatto un’eccezione, dal 1967 – anno di inizio dell’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est – Israele ha emesso oltre 50mila ordini di detenzione amministrativa.

A oggi sono 350 i detenuti amministrativi palestinesi. Negli ultimi due decenni in media ogni mese 400-500 palestinesi ne sono stati vittima, raggiungendo i picchi nei primi Duemila, durante la Seconda Intifada, con oltre mille casi al mese.

Come non è un’eccezione la protesta, collettiva e individuale. Il movimento dei prigionieri palestinesi, a partire dagli anni Settanta, ha fatto dello sciopero della fame una delle sue armi principali, capace di sottrarre all’occupazione militare il monopolio della violenza e il controllo dei corpi. È da allora che nelle celle inizia una battaglia nuova per il rispetto dei diritti umani e il riconoscimento della prigionia politica.