Ci sono due modi per combattere la povertà. Il primo è elargire sussidi che consentano agli indigenti di far fronte ai loro bisogni più impellenti. Il secondo è di trovare lavoro per tutti, in maniera che ogni famiglia possa provvedere alle proprie esigenze tramite i salari guadagnati. Il primo modo scaturisce dalla carità e ha generato molte delle istituzioni dello stato assistenziale. Il secondo ha invece condotto alle politiche attive del lavoro e spesso alla diretta creazione di impiego da parte del governo.

Hyman Minsky è stato uno degli oppositori del primo modo ed un sostenitore appassionato del secondo. Allievo di Schumpeter ad Harvard, attento osservatore delle politiche del New Deal, economista keynesiano di elezione, fu un influente consigliere, anche se inascoltato, dei governi democratici americani. Fu tra i primi a rilevare, spesso ossessivamente, la fragilità dei sistemi finanziari dell’economia capitalistica ed i pericoli connessi ad un eccessivo indebitamento delle banche e delle imprese.

Iniziava le sue conferenze con una affermazione iettatoria: «l’avvenimento economico più significativo dell’epoca successiva alla seconda guerra mondiale è qualcosa che non è accaduto: non vi è stata una depressione profonda e duratura analoga alla grande crisi del 1929». Chi lo udiva faceva spesso gli scongiuri sotto la sedia, ma poi apprezzava un ragionamento serrato in cui erano elencati i pericoli connessi all’instabilità finanziaria e le azioni necessarie per porvi rimedio. Né governi e ancor meno le banche centrali gli diedero retta.
Scomparso nel 1996, non ebbe modo di vedere avverata, nel 2008, la sua triste profezia, e proprio per le ragioni che lui aveva illustrato. Wall Street e City, Washington e Francoforte hanno iniziato solo dopo la catastrofe a prendere sul serio le sue idee, tanto che il New Yorker ha definito causticamente questa postuma aurea il «Minsky moment».

Oggi il Levy Economic Institute di New York ci offre un’altra serie di scritti dedicati alle politiche del pieno impiego (Hyman Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, traduzione italiana Ediesse, euro 15). È in un periodo di sostenuto sviluppo economico, nel quale gli Stati Uniti erano la locomotiva dello sviluppo capitalista, che Minsky elabora le sue idee sul lavoro. Nonostante tassi di crescita che a confronto della stagnazione odierna sembrano vertiginosi, lui vedeva già uno dei paradossi del nostro tempo, ossia la miseria nel mezzo dell’opulenza. Erano problemi su cui i Presidenti Kennedy e Johnson «mettevano la faccia», si direbbe oggi, tramite vasti programmi di politica economica e sociale. Ciò avrebbe consentito di ridurre ulteriormente la disoccupazione per portarla alla sola componente frizionale. Dall’altra, la «grande società» avrebbe agito per sostenere quanti non riuscivano ad agganciarsi al carro della crescita.

La società del benessere, sosteneva invece Minsky, non si poteva creare esclusivamente tramite politiche di assistenza. Il soccorso fornito ai disoccupati poteva aiutare nel breve periodo, ma lasciare migliaia di giovani, spesso di colore, al di fuori del mercato del lavoro significava distruggere preziose risorse umane. Senza impiego, questi ragazzi non avrebbero avuto un biglietto d’ingresso per la vita civile. Ma sarebbero stati scontentati anche coloro che, con le proprie tasse, avrebbero dovuto mantenerli per non far niente.

Minsky riteneva necessario aggredire la componente strutturale della disoccupazione, alla origine del disagio e del conflitto sociale. Il governo doveva essere più audace, generando direttamente quei posti di lavoro che il mercato non era in grado di creare. Da qui l’idea che il governo dovesse diventare «datore di lavoro di ultima istanza». L’idea di Minsky era di creare un esercito industriale di riserva pronto ad entrare in azione nei periodi di crisi per programmi di infrastrutture sociali e ambientali, che poi potesse essere riassorbito dal mercato nei periodi di espansione.

Nel 1933 furono eletti Adolf Hitler e Franklin Roosevelt con un unico punto in comune: la creazione diretta di occupazione. Ciò dimostrava che non erano solo i governi autoritari che potevano creare lavoro, lo dovevano fare anche quelli liberali, e chi falliva rischiava di aprire la porta a incontrollabili torbidi sociali. Assimilata la lezione, durante la seconda guerra mondiale si svilupparono anche in Europa progetti per assicurare la piena occupazione, come quelli di William Beveridge in Gran Bretagna e di Ernesto Rossi in Italia. Il primo perorava la sua causa alla Camera dei Lord, mentre il secondo scriveva di nascosto nel confino di Ventotene.

La persistenza della crisi economica non consente di dimenticare questa tradizione, ricordano Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi nell’introduzione al volume. L’intervento pubblico, utile a temperare le fasi espansive del ciclo economico, diventa vitale per impedire che la recessione si trasformi in stagnazione. L’amministrazione Obama ha tratto insegnamento dalle politiche economiche delle amministrazioni democratiche di presidenti come Roosevelt, Kennedy e Clinton, mentre l’Europa si è scoperta pericolosamente pre-keynesiana, riducendo la spesa governativa e smantellando le imprese pubbliche quando ce n’era più bisogno, senza per altro ottenere alcun effetto positivo sul debito pubblico.

Ma soprattutto, si sono bruciate le risorse umane delle nuove generazioni, spesso adagiate sui sussidi e abituate a vivacchiare in una zona grigia spesso dominata da ozii e vizi. Per un quarto di secolo, Minsky insegnò alla Washington University di Saint-Louis, una efficiente istituzione privata a soli quindici minuti da Ferguson, cittadina dove il 17% della popolazione, in gran parte di colore, vive sotto la soglia della povertà. Minsky sapeva di cosa parlava: se fosse stato ascoltato dal governo, forse non ci sarebbero più ghetti negli Stati Uniti. Oggi rammenta all’Europa che senza lavoro per tutti i nostri sistemi politici rischiano di franare.