Calliphora vomitoria è una mosca blu comunissima e diffusissima. Grazie all’artista francese Pierre Huyghe, è ora protagonista di un’istallazione alla Serpentine Gallery di Londra, dove circa 50.000 larve sono state sistemate sul pavimento in attesa che si schiudessero durante il periodo della mostra (Uumwelt, fino al 10 febbraio). Le mosche trascorrono nella galleria l’intero ciclo della loro breve vita, dalla nascita alla morte, ronzando intorno a larghi pannelli a LED che presentano immagini in continua trasformazione. Si tratta di immagini prodotte da un’indagine di risonanza magnetica funzionale (FMRI: Functional Magnetic Resonance Imaging) del cervello umano di fronte a precisi stimoli visivi: le risultanti visualizzazioni dell’attività del cervello (neuroimaging funzionale) sono state affidate da Huyghe a una rete neurale artificiale, che ha imparato a mettere in relazione le risposte cerebrali con gli stimoli visivi che le hanno evocate, in modo da ricostruire l’immagine originaria da cui è scaturita la proiezione cerebrale. La rete neurale subisce il condizionamento dell’ambiente circostante, sicché le immagini prodotte sono in continua ridefinizione e sempre cangianti, con effetti rapidissimi di aggiustamento sulla base dell’esposizione alla luce, al rumore e alla temperatura della stanza.
Reaching Beyond the Obvious
L’applicazione della tecnologia di neuroimmagine a ipotesi estetiche non è nuova, grazie al fascino delle bellissime colorazioni fosforescenti sulle figure standard dell’anatomia cerebrale per evidenziare le zone del cervello in attività: la mostra di poco più di un anno fa a Montréal Reaching Beyond the Obvious, promossa dall’Organization for Human Brain Mapping (OHBM), con opere di Sara e Emmanuela Ambrosino, Aman Preet Badhwar, Pierre Bellec, Maxime Chamberland, Maxime Descoteaux, Simon Drouin, David Fortin, Katja Heuer, Crean Quaner, Michel Thiebaut de Schotten e Roberto Toro, ne è stata un esempio decisivo, con lo spettatore costretto a chiedersi se stava ammirando prodotti scientifici o estetici, lastre radiografiche o arte metafisica.
Che quella di Huyge sia prima di tutto una riflessione su mutamento, instabilità e inafferrabilità del mondo è confermato da una mappa ricavata dalla scartavetratura dell’intonaco di una delle pareti, che ha prodotto effetti di profondità e colore, con aloni simili a quelli che si usano per disegnare le curve di livello delle orografie nelle carte geografiche. L’obiettivo di Huyghe è la costruzione di un ecosistema, nel quale umano, animale e tecnologico interagiscono indefinitamente senza rendersene conto: a darne conto, appunto, possono essere solo le immagini, che fotografano quindi la realtà in quanto dinamica di relazioni anziché insiemi di oggetti.
Non si tratta però solo di una visualizzazione cerebrale (e magari cervellotica). Huyghe dialoga implicitamente con la storia dell’arte novecentesca, in particolare il surrealismo, col suo meccanismo di nascondimento e rigenerazione dell’immagine (e surrealiste sono in fondo le sue tecniche, assemblage e grattage): l’effetto è senz’altro straniante, perché il riconoscimento del confine tra scienza e arte è impossibile. Riusciamo a intuire l’immagine originaria, ma non riusciremo mai a visualizzarla secondo le categorie con le quali costruiamo la nostra visione, che siamo abituati a ritenere realistica: il punto è che in effetti il tentativo del nostro sistema nervoso di interpretare la realtà inevitabilmente la semplifica e la distorce, per renderla leggibile e categorizzabile sulla base di modelli che il cervello stesso ha messo faticosamente a punto in milioni di anni di selezione naturale. Huyghe ci mette dunque di fronte alla nostra ignoranza di ciò che effettivamente significa vedere, che implica la percezione del movimento e della sfumatura, al punto da rendere le immagini assolutamente inafferrabili: ciò disgrega la presunzione di costruzione formale dell’opera d’arte e apre uno scenario spaventoso d’instabilità. La destabilizzazione dello spettatore conduce alla perdita totale d’identità dell’opera come oggetto, fino al punto che la sua stessa commerciabilità potrebbe venire messa in discussione, con conseguenze disastrose sul mercato dell’arte: il potenziale di contestazione politica dell’istallazione è tanto forte che c’è il rischio che la scienza trasformata in arte possa davvero mettere in crisi interpretazioni e pratiche consolidate.
«Cercavo qualcosa che si scrivesse da solo, che potesse autogenerarsi, evolversi e trasformarsi da sé», ha dichiarato l’artista-filosofo, già protagonista di memorabili costruzioni ambientali (come Untilled a Kassel, 2012, dove in un giardino un cane di gesso con una zampa rosa, chiamato Human, puntava un marmo raffigurante un nudo di donna reclinato con la testa ricoperta da un alveare e api tutt’intorno, e After Alife Ahead a Münster, 2017, dove lo spazio urbano edificato veniva scavato e riempito di figure robotiche). Qualcosa che contenesse simultaneamente la nascita, il movimento e la dissoluzione, al punto da essere onnicomprensivo, ma anche autodistruttivo: totalitario e marcescibile, autosufficiente e perituro.
Tra comunicazione e significazione
Uumwelt, che è nel titolo della mostra con raddoppiamento della u iniziale, vuol dire del resto in tedesco solo ‘ambiente circostante’, ma in semiologia (secondo Jakob von Uexküll, Max Scheler e Thomas A. Sebeok, che l’hanno teorizzato) è «il fondamento biologico che si trova all’epicentro stesso dello studio dell’interazione tra comunicazione e significazione», cioè quel mondo autoreferenziale, o universo soggettivo, che consente agli organismi di differenziarsi fra loro pur vivendo nelle stesse condizioni. Ciò che dovrebbe essere l’esposizione, spazio-tempo autonomo dove l’opera incontra lo spettatore, ma che non può più esserlo, se exposition rima con expédition (esposizione: spedizione), rendendo ciò che sembra stabile fluido, la meta tappa, l’obiettivo strumento: arte in divenire e sempre incompiuta, per la disperazione dei collezionisti.
Il tutto si traduce allora in una riflessione sulla mortalità del mondo, che è inesorabilmente soggetto al tempo. La pretesa di eternità dell’opera d’arte, che travalica romanticamente le età della storia per restare monumento perenne dell’intelligenza e dell’immaginazione con cui l’uomo supera l’umano e attinge il divino, viene clamorosamente meno e lascia spazio a un universo di forme destinate a perire: come morte sono ormai gran parte delle mosche blu che all’inizio della mostra non erano neppure nate.
Le immagini in costante ridefinizione ci rimandano all’idea che ogni definizione è un artificio e che l’arte stessa non può che essere artificio: opera nel tempo e col tempo, inesorabilmente soggetta al cambiamento, priva di qualsiasi base stabile e solida perché instabile e malleabile è non solo la materia, ma addirittura il nostro rapporto con la realtà. La realtà esiste, certo, perché le immagini derivano da una visione di una situazione; ma di situazione, soggetta al movimento, al calore e alla luce, si tratta, anziché di oggetti con identità precise. Quello che queste immagini cangianti mettono in gioco, insomma, è il gap tra la realtà e la nostra conoscenza della realtà, tra ciò che è, a priori, e ciò che vediamo, a posteriori, fino a denunciare quello che la scienza ha sempre saputo, ma i teologi della scienza non vogliono ammettere: la necessaria insufficienza e fallibilità della nostra conoscenza. Travolte entrambe da questa consapevolezza, la scienza e l’arte: se la prima ha bisogno della seconda per dire l’indicibile, la seconda ha sempre più bisogno della prima per imparare a dire il suo limite.