A Münster, After ALife Ahead (2017) di Pierre Huyghe spicca per la complessità che espone e per i pensieri che ispira. L’artista francese si è servito di un palazzo del ghiaccio destinato alla demolizione. Chi entra si trova di fronte a un ambiente alquanto dissestato: la pista di pattinaggio è stata spaccata in più parti, lasciando emergere un sottosuolo di sabbia che presenta dune, viottoli, pozzanghere e due mausolei di sabbia. I giovani guardiani invitano i visitatori a scaricare sui propri cellulari una app progettata da Luxloop su richiesta di Huyghe. Puntando lo schermo del telefono verso l’alto si vedono delle forme piramidali nere in movimento. L’immagine, così viene spiegato, traduce l’evolversi delle cellule carcerogene collocate in un incubatore ai margini della pista.
Si inizia a intuire come gli elementi dell’habitat siano interdipendenti: l’acquario, collocato su una duna, che contiene (tra l’altro) il Conus textile, mollusco del cui veleno non esiste un antidoto; le api che ronzano intorno ai mausolei; apertura e chiusura delle ante del soffitto; i suoni percepibili a intervalli irregolari; e così via. L’interdipendenza è confermata da un disegno dell’artista pubblicato nel catalogo. Osservandolo, e interrogando i guardiani, si apprende che l’oscurarsi dell’acquario e la chiusura del soffitto (quando è aperto passano luce e pioggia, esponendo l’edificio all’esterno) avvengono non appena il mollusco si nasconde alla vista di una telecamera. Il suono è determinato dal propagarsi delle cellule, sulla crescita delle quali influisce l’erogazione di CO2 nell’incubatore. L’intensità del processo varia in base a sensori che intercettano la vitalità del luogo: dalle api e dall’accumulazione di acqua piovana alla temperatura e all’affluenza e circolazione del pubblico. In breve, queste e altre parti, organiche e non, assemblate da Huyghe co-dipendono tra loro. Grazie all’impiego di uno o più algoritmi, l’opera è in grado di realizzare un sistema comprensivo di vita e morte.
L’installazione riflette la consapevolezza, sempre più diffusa, di essere entrati nella nuova era geologica dell’Antropocene (un termine introdotto dal biologo Eugene Stoermer negli Ottanta e poi adottato da Paul Crutzen nel libro Benvenuti nell’Antropocene ). Per Bruno Latour, sociologo e filosofo interessato a questi temi, tutti gli agenti sul pianeta (umani, animali, vegetali) condividono ormai lo stesso destino mutevole e irrapresentabile se si ricorre alle vecchie categorie legate alla soggettività o all’oggettività. Operato umano e ambiente naturale sono inseparabili. L’opera di Huyghe illustra questa indissolubilità: non solo evoca una scena primaria, con acqua e uno strato sabbioso che sembrerebbe risalire all’era glaciale, ma, con l’erogazione di CO2, ci ricorda che una delle cause del surriscaldamento della Terra è da cercare nell’anidride carbonica emessa dalle attività umane.
Nell’indurre a meditare sul destino della Terra o «Gaia», come propone di chiamarla il fisico James E. Lovelock, ritenendola un sistema simile a quelli viventi, After ALife Ahead assume pure una posizione originale nella storia dell’arte visiva. Offre una sua immagine della morte o di «ciò che muore». Dal Trecento in poi, gli artisti hanno spesso reso la morte nelle guisa di uno scheletro che irrompe nel tempo umano e minaccia o annienta. Rari sono quei maestri che si figurarano il morire come un processo connesso al vivere: un caso è il Cristo morto di Holbein, dove è percepibile l’inizio della decomposizione, oppure i disegni coi quali Michelangelo immagina il corpo crocifisso di Gesù mentre esala l’ultimo respiro. Prevale, però, la tendenza opposta a personificare la morte come un lugubre estraneo. Il problema resta fino a oggi. Un esempio recente è la serie Death and disaster (1963-’64) di Warhol, il quale evoca la morte come un agente invisibile e impersonale che può manifestarsi sia nella contingenza e nell’imprevisto sia con l’esecuzione di una sanzione penale.
Al confronto con questa carrellata di esempi, l’opera di Huyghe si distingue in quanto tenta di cogliere l’immagine della morte in azione: in evidenza appaiono non estraneità, casualità o maleficio, bensì il legame tra vita e morte quali elementi continuamente attivi dentro e oltre la natura e la cultura.