Nelle fotografie di Hugo Weber (Parigi 1993, vive a Milano dal 2003) non c’è traccia di quella leggerezza con cui Raoul Dufy ha continuato a raccontare, dagli anni ’20 a ridosso degli anni ’50, le corse ippiche nell’ippodromo Deauville La Touques. In questo ippodromo fatto costruire dal Duca di Morny nel 1863-64, che è tra i più belli della Francia anche per la sua posizione vicino alla spiaggia, si continuano a svolgere a competizioni di galoppo, sia d’estate che d’inverno, con purosangue di grandissimo pregio.

Invitato a partecipare alla residenza Tremplin Jeunes Talents, nell’ambito dell’XI edizione del festival Planches Contact 2020 (curata da Laura Serani), il giovane fotografo che ammira Nan Goldin ha scelto di raccontarne alcuni aspetti in Lippodrome. La mostra, allestita negli ambienti del Point de Vue, è concepita come un box con le pareti interamente ricoperte di immagini che introducono ad una realtà per niente edulcorata. Stesso sguardo disincantato con cui Weber ha documentato, insieme a Denny Mollica, il disagio di via Boifava nella periferia milanese, nel suo primo libro 5341 (2019).

Come nasce l’idea di «Lippodrome», dove entri in un mondo che non ti appartiene?
Il mondo dei cavalli mi sembrava una sfida. La mia idea iniziale era lavorare sulle donne fantino, ma era un argomento inaccessibile per una questione di tempistiche. Sono abituato a lavorare ai progetti per almeno un anno, a vivere con la gente. In questo caso sono tornato tre volte a Deauville, ogni volta per due settimane, tra febbraio e giugno, per raccontare la mia esperienza di ragazzino di periferia all’interno di qualcosa che mi sfugge totalmente. Ho cercato di creare un parco giochi, perché quando si entra nell’ippodromo si sta in un’altra sfera. È tutto un paradosso, molto serio, sfarzoso, esagerato e contraddittorio, sia la mattina quando i cavalli si allenano che il pomeriggio, durante le corse. Si può trovare un emiro ricchissimo accanto a un ludopatico che sta frugando nella spazzatura per recuperare un biglietto da 5 euro. Ci sono anche i lavoratori che sono quelli che ci tengono veramente al cavallo, ancor più di chi considera il cavallo solo uno status symbol. Tutte queste realtà mischiate mi sembravano un patchwork assurdo che ho cercato di ricreare. Ho usato l’escamotage delle gigantografie a colori – di solito i miei colori sono molto più cupi – per poter rappresentare al meglio la sensazione di quando sono arrivato in questa realtà sorprendente. È un po’ una bolla chiusa. Anche l’idea di chiudere la mostra in un box nasce da lì. Nei collage fotografici c’è la volontà di non perdere la soluzione di continuità tra immagini vere, scattate su pellicola e inserimenti virtuali. Il cavallo è al centro di tutto, ma in realtà a nessuno gliene importa veramente, se non per la sua valenza economica e di divertimento. Per Lippodrome ho realizzato anche una fanzine che contiene gli sticker con i cavallini, gli stessi che sono sulle pareti.

Il libro fotografico, fanzine o self-publishing, ti dà qualcosa in più rispetto al singolo scatto?
Il libro è lo strumento per emanciparmi dai limiti dello scatto. Mi permette di usare le foto d’archivio, le pagine trasparenti… sperimentare attraverso l’uso della carta. Molte fotografie non le farei se non facessi un libro. Lo scatto è il momento di libertà in cui non penso. Mi impongo i paletti della storia che so che devo raccontare, ma al loro interno mi perdo. La pellicola mi piace proprio perché dentro questa perdizione c’è anche il fatto che non vedo la foto.

Tra i progetti che stai sviluppando c’è quello su Monika des Gravats…
Ho iniziato a scattare nel giugno 2019. Si tratta della storia di un pittore transessuale tossicodipendente che ha costruito la bidonville dove vive in una banlieue di Parigi. Ho chiamato il progetto Monika la bohémienne des Gravats, perché «gravats» in francese vuol dire macerie. Lei, infatti, vive tra le macerie. Fuma crack tutto il giorno, dipinge e vive alla giornata recuperando il cibo, rubando la corrente elettrica, vivendo con altri artisti. È un lavoro sul disagio in cui l’arte è l’àncora che la salva, ma la fa anche stare a fondo nella sua condizione di bohémienne. Mi interessa molto il suo essere al confine, metà uomo e metà donna, dentro e fuori le dinamiche della società. Mi piace l’adrenalina. Sono abituato alle periferie e voglio arrivare a quelle storie che gli altri non possono toccare, mentre io posso farlo proprio per il mio linguaggio grezzo. In pochi, poi, sarebbero andati lì, dormendo con i topi. Io l’ho fatto e porterò a casa il libro.

E’ stato difficile entrare in empatia con lei?
Le voglio bene. È come se fosse una seconda mamma, ma all’inizio c’era diffidenza. Non riesco a raccontare una storia se non ci sto dentro. In lei rivedo anche cose di me, la lotta, la famiglia che non c’è, la strada, le difficoltà. Sarei potuto diventare come lei, quindi per me è una scusa per andare a vedere. È lì che ti accorgi che non vuoi fare quella vita, proprio per niente.

A proposito di mamma, un altro tuo progetto in corso che è stato premiato è «Maman t’es où?»…
Finché non muore, lo faccio. Sono molto cinico. Mia mamma Agnès ha avuto un ictus quando avevo 23 anni. Avevamo un rapporto molto conflittuale in cui lei mi dominava. Sono figlio unico e lei quando mi ha avuto era molto giovane. Mi ha buttato fuori di casa quando avevo 18 anni. Inoltre, anche lei faceva la fotografa, quindi c’era della gelosia malsana. Abbiamo iniziato questo lavoro fotografico cinque anni fa, un po’ come terapia ma anche per creare una relazione tra noi.

Non è un caso che tu faccia il fotografo …
Non lo so. Non volevo fare il fotografo, prima facevo graffiti. Sono cresciuto nell’epoca del digitale, ma la fotografia digitale non mi piaceva. Quando mia madre faceva la fotografa ho vissuto tanto nella camera oscura, anche se non vedevo quel mondo come qualcosa di mio. Finché un giorno un giovane professore del dipartimento di grafica dell’Istituto Kandisnky di Milano mi mise in mano una macchina analogica e mi fece tre ore di lezione: scatto, sviluppo e stampa. Da quel momento mi sono innamorato della fotografia. Ho cercato il mio linguaggio, uso sempre le storie degli altri per parlare di me.

Nel 2016 hai lavorato con Alex Majoli e continui a collaborare con Paolo Ventura con cui hai vinto il Premio Ghost 2019, qual è la lezione di questi due autori così diversi?
Di Alex la metodologia del lavoro, non esistono limiti, bisogna sempre andare dritto all’obiettivo. Di Paolo, il contrario: la libertà di fare una cosa o non farla. Sono anche due parti di me che convivono.