Un po’ certo anche per risparmiare il fiato di settantaseienne, e prendere tempo prima di imboccare di nuovo lo strumento, ma Hugh Masekela ama molto parlare col pubblico. In novembre, al Blue Note di Milano, in duo con al piano Larry Willis, un amico dai tempi, il ’60, in cui frequentavano assieme la Manhattan School of Music, raccontava dei suoi primi entusiasmanti incontri di giovane jazzman espatriato dal Sudafrica dell’apartheid: Miles, Coltrane, Monk, Mingus, Ellington, la Fitzgerald… i suoi idoli. Lui voleva suonare bop, ma Monk e il suo mentore Harry Belafonte gli raccomandavano di fare qualcosa di più africano. Però chi gli spiegò il concetto nella maniera più efficace fu – e Masekela ne imitava la voce roca – Miles, che come sua abitudine senza lesinare in turpiloquio gli disse: «se metti insieme la merda che facciamo noi con la merda che hai portato da casa tua, beh, merda, fai il botto!». Avrebbe potuto Masekela non seguire un consiglio tanto autorevole?

E nel ’68 col suo Grazing in the Grass si trovò a duellare in cima alle classifiche americane con Jumpin’ Jack Flash dei Rolling Stones. Miles aveva ragione, ma sotto sotto a Masekela deve essere rimasto un po’ il cruccio di non avere fatto il jazzman tout court: al Blue Note, oltre che alla Makeba, era tutto omaggi a grandi jazzmen, Armstrong, Fats Waller, Herbie Hancock. In piazza San Carlo, in un concerto gratuito per la seconda sera del Torino Jazz Festival, è invece di scena il Masekela battistrada della world music, l’artefice dell’originale, gustosissimo easy listening nutrito di jazz e umori sudafricani con cui conquistò gli Usa negli anni sessanta. Certo Masekela non ha più l’energia per esprimere nei suoi inconfondibili fraseggi tutto il suo temperamento di jazzman, di dare corpo al suo personalissimo sound: ma pur prudente e un po’ tenue nei suoi interventi, che centellina, quando prende il flicorno ha sempre una sua poesia.

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Da una intensa resa del suo classico Stimela, a Lady di Fela Kuti, da Kauleza, sugli interventi della polizia contro gli shebeen durante l’apartheid, a Bring him back home, l’hit su Mandela degli anni ottanta, quello che non gli fa difetto è il mestiere: affabulatore nell’introduzione ai brani, vocalist ancora di carattere nel suo parlato-cantato, bandleader accorto nell’uso estremamente sobrio del sestetto, Masekela tiene godibilissimamente banco per un’ora e mezzo, con soddisfazione di un pubblico folto e confortantemente variegat. Sabato mattina la cattiva acustica dell’auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo non ha impedito di brillare all’ottetto di Steve Lehman, un po’ il personaggio del momento per quanto riguarda il jazz di ricerca di oggi. Newyorkese, sax alto, Lehman convince soprattutto proprio col suo ottetto, con cui lo scorso anno ha fatto colpo con l’album Mise en Abîme, per cui è stato pluripremiato (miglior musicista, gruppo e album nell’ultimo referendum del mensile Musica Jazz) ed è portato in palmo di mano dalla critica internazionale.

Con Jonathan Finlayson, tromba, Tim Albright, trombone, Mark Shim, sax tenore, Dan Peck, tuba, Chris Dingman, vibrafono, Matt Brewer, basso, e Tyshawn Sorey, batteria, Lehman ha dato vita a brani estremamente dinamici, spesso anfetaminici, caratterizzati da una stringente, strutturata organizzazione del contributo dei singoli a beneficio di un esatto risultato d’insieme. I soli sono, almeno nelle loro linee guida, preordinati, e precisamente inseriti nella serrata concatenazione dei pezzi, in un incalzante avvicendamento di uscite individuali – quelle dei fiati a loro volta spesso punteggiate da interventi arrangiati degli altri fiati – e di passaggi d’insieme. Una menzione particolare è dovuta per il prodigioso Tyshawn Sorey che con virtuosistica destrezza pari alla disinvoltura scandisce l’irrituale, mobile ed eccitante andamento ritmico che non è l’ultimo dei motivi di fascino della musica di Lehman.

Nel tardo pomeriggio di sabato Torino Jazz Festival ha proposto all’Auditorium Rai uno degli appuntamenti di maggiore prestigio di questa edizione, la Passione secondo Matteo di James Newton, produzione originale, e impegnativa, del festival per soli, coro e orchestra da camera (del Regio), e sezione ritmica. Valente flautista, Newton è stato una delle presenze afroamericane più originali nel panorama del jazz di ricerca degli anni settanta e ottanta, ma purtroppo questa sua cantata, di impronta classico-novecentesca assai prudente e convenzionale, non si è staccata da una notevole piattezza sia nella partitura orchestrale che nell’uso delle voci.