Il più grosso complesso commercial/residenziale della storia americana, distribuito su una superficie tra i 26 e i 28 acri, con un totale di 1.6 milioni di metri quadrati in spazi per appartamenti e uffici, disegnato dallo star system dell’architettura mondiale (Norman Foster, David Childs, Diller Scofidio + Renfro – con prossimamente in arrivo anche Gehry, Calatrava, Stern e Herzog e de Meuron), per ospitare ristoranti pilotati dallo star system della cucina mondiale, tutti i luxury brands immaginabili, il quartier generale newyorkese di corporation come Warner Media, appartamenti da decine di milioni di dollari, un centro d’arte polivalente finanziato dalla città per 500 milioni che si chiama The Shed (La capanna!) e una struttura/scultura di Thomas Heatherwick costata 200 milioni che è già stata paragonata a un «cestino della carta straccia».

È Hudson Yards, la nuova cittadella imprenditorial-culturale che si erge sul lato occidentale di Manhattan, un trionfo di due tra le imprese immobiliari private più grandi del mondo, l’Oxford Property Group e Related Companies, il cui CEO, Stephen Ross, è l’architetto principale di questo ritratto/ metafora – in acciaio e vetro smaglianti – della New York di oggi.

All’inizio, sulle ceneri dell’11 settembre, questa destinazione d’uso per Hudson Yards – emersa in sostituzione di quella che avrebbe adibito l’area dell’ex deposito ferroviario, sulla riva dell’Hudson, alla costruzione di uno stadio per attirare a Manhattan le Olimpiadi – non era sembrata malvagia. Senz’altro non una minaccia. Quasi vent’anni dopo, sulla scia dell’impennata corporate potenziata dalla crisi economica del 2008, questa fortezza per l’1%, disegnata non per integrarsi con il tessuto della città ma per rimanerne a parte, come un mega-villaggio residenziale, o un Wal Mart di lusso, che offre «solo il best» di tutto a chi lo abita, è un simbolo doloroso di dove ci ha portati il declino della cultura della cosa pubblica.

Il frutto dell’incuria e della miopia di amministrazioni cittadine (tre mandati di Bloomberg, due di de Blasio; per citare le più recenti) che hanno lasciato deteriorare l’infrastruttura della città e il valore degli spazi comuni fino alla soglia dell’irreparabilità.
L’isolato dove vivo, in quartiere pregiato di Manhattan, è chiuso da oltre un mese perché le condutture del gas erano a rischio di saltare in aria. Ogni giorno aprono a chiudono buchi diversi coi bulldozer. Dopo essere rimasta settimane senza telefono, per riavere la linea ho dovuto ricorrere agli uffici di un senatore e di un deputato statali, e alla Federal Communications Commission.

«Si trovi un altro provider, aggiustare la sua linea è troppo costoso. E portare le fibre ottiche in queste case vecchie un incubo: troppi proprietari», mi aveva detto un lobbista di Verizon, la compagnia che quella linea deve darmela per legge. E che avrebbe dovuto portare la fibra ottica in tutta New York entro il 2006, in cambio di ampie agevolazioni fiscali già intascate.
Non è sfuggita a nessuno – in questi giorni che seguono la precipitosa ritirata di Amazon da Queens – l’ironia che le agevolazioni fiscali offerte alla compagnia di Jeff Bezos scompaiono in confronto a quelle elargite negli anni per la realizzazione di Hudson Yards.

Ed è un interessante segno della nuova temperatura culturale che le reazioni alla gigantesca creatura di Stephen Ross e co. siano state per ora piuttosto devastanti. Critici di architettura come Justin Davidson (del settimanale «New York») o Michael Kimmelman («New York Times») non hanno ceduto alla seduzione della nomenklatura dei designer e hanno stroncato il progetto, non solo in chiave architettonica, ma soprattutto dal punto di vista concettuale e politico.

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