Sarà la neozelandese Laurel Hubbard, la prima transgender della storia delle olimpiadi a partecipare ai Giochi di Tokyo. Figlia dell’ex sindaco di Auckland, gareggerà a 43 anni nel sollevamento pesi, categoria +87 e risulta tra le favorite per la medaglia d’oro. Hubbard quattro anni fa si è sottoposta a un intervento per la transizione dal sesso maschile a quello femminile, e successivamente alle cure per stabilizzare gli ormoni. Oggi la sua condizione risponde ai criteri indicati dal Cio nel 2015, che fissano il testosterone al di sotto dei 10 nanomoli a litro. Una decisione che consente ai transgender di gareggiare sia in campo maschile che femminile, ma per abbassare il testosterone è necessario fare cure farmaceutiche lunghe e costose. Se i neozelandesi hanno sostenuto Laurel Hubbard pubblicamente per la sua scelta di cambiare sesso, a cominciare dal Comitato olimpico della Nuova Zelanda, la decisione del Cio di ammetterla alle gare ha scatenato le polemiche tra le concorrenti, che vedono Laurel già sul podio.

SITUAZIONE OPPOSTA è quella in cui si trova la campionessa olimpica degli 800 metri Caster Semeneya, affetta da iperandrogenismo, cioè una produzione naturale di testosterone di gran lunga al di sopra della media, tale da spingere la Federazione internazionale di atletica leggera (Iaaf) a sospenderla dalle gare per sottoporla a un’indagine approfondita dei suoi livelli ormonali. Semeneya, riammessa dal Cio alle gare dopo estenuanti discussioni e umiliazioni pubbliche sul suo sesso, avrebbe dovuto sottoporsi alle cure farmacologiche per abbassare i valori di testosterone, ma si è rifiutata, non trattandosi di cambiamento di sesso come nel caso di Laurel Hubbard. La decisione estrema di Semeneya pone una questione che il potere del Cio, costituito da uomini saldamente al comando, ha liquidato con l’intransigenza tipica del maschilismo sportivo, che ha trovato un alleato nel silenzio generale della stampa sportiva.