Dopo che l’amministrazione Trump ha bloccato le forniture e i servizi a Huawei (e altre aziende, sono circa 700), la decisione di Google di revocare la licenza per il sistema operativo Android sugli smartphone Huawei è una scossa decisiva nello scontro tra Cina e Usa.

L’evento conferma, intanto, che la guerra dei dazi – con le contro-risposte di Pechino – è semplicemente il paravento di una guerra ben più importante e che ha a che vedere con la tecnologia e la supremazia tecnologica mondiale. Significa che gli Stati uniti hanno deciso di colpire in modo decisivo Huawei, seconda azienda al mondo per vendita di smartphone e tra i principali operatori in infrastrutture di reti.

[do action=”citazione”]La Huawei è anche la società candidata a dominare il mercato più importante del futuro, quello del 5G.[/do]

Dobbiamo infatti ragionare su quanto accaduto provando a fare uno sforzo di previsione dei tempi: nel prossimo futuro – con il 5G -i nostri smartphone serviranno anche per il cosiddetto «internet delle cose», ovvero il controllo totale su tutto quanto ci circonda, dal funzionamento energetico della nostra casa a una potenziale auto a guida autonoma; si tratta di un ambito capace di incidere in modo profondo sui Pil nazionali e su migliaia di posti di lavoro. In più c’è l’aspetto alla base di tutto questo: i Big Data.

Ad oggi il motore principale dei Big Data e la loro analisi e costante e successiva «customizzazione» dei servizi sempre più personalizzati – senza pensare, naturalmente, al vasto mercato dei dati – è costituito dalle applicazioni che «girano» sui sistemi operativi degli smartphone, Android e Apple.

Se la decisione di Google sarà confermata, da domani uno smarpthone Huawei potrebbe essere mancante di alcuni servizi (Gmail, Youtube, ma anche Drive e tanto altro): sostanzialmente sarebbe uno smartphone inutile, per come è concepito oggi questo oggetto. Per quanto riguarda invece gli attuali smartphone, non dovrebbero esserci problemi (per quelli venduti fuori dalla Cina).

Tutto questo comporta diverse complicazioni per Huawei: in primo luogo l’eco mediatica della comunicazione di Google, potrebbe portare a prime gravi perdite nelle vendite degli smartphone Huawei. In secondo luogo, e più di tutto, obbliga Huawei a organizzarsi e a farlo in fretta: l’azienda cinese ha fatto sapere già nel marzo scorso di aver attivato tutte le procedure per produrre un sistema operativo proprio, autonomo.

Potrebbe anche accelerare i tempi, il sistema operativo potrebbe anche essere lanciato prima di quanto stabilito. Ma a quel punto i problemi sarebbero comunque altri e non di poco conto: Huawei dovrebbe convincere gli sviluppatori a elaborare le proprie app per il nuovo sistema operativo. E naturalmente gli utenti dovrebbero essere convinti di queste novità. Insomma, non sarà semplice.

Oltre a questi aspetti tecnici, naturalmente, la decisione di Google finisce per essere paragonabile a un vero e proprio atto di guerra.

[do action=”citazione”]Chi impedisce, infatti, di pensare che anche qualora Huawei producesse un proprio sistema operativo autonomo, non possano sorgere nuovi divieti da parte americana addirittura e anche per gli sviluppatori?[/do]

La sensazione è che l’odierna comunicazione di Google possa innescare una reazione a catena, portando all’affermazione di «nazionalismi digitali» in tema di «piattaforme»: sistemi operativi chiusi, app fornite da sviluppatori nazionali o di «area». Siamo nel mezzo di una guerra tecnologica destinata a rivoluzionare i confini digitali del mondo di domani.

Il tentativo di strozzare Huawei, per i motivi che riguardano la corsa al 5G, da parte di Trump si è sviluppato nel corso degli ultimi sei mesi.

La base di tutto, di facciata, è la seguente: secondo gli Usa Huawei, pur dichiarandosi «privata», è in realtà nelle mani del partito comunista. Per Washington Huawei è un’azienda di stato cinese.

Le sue reti, pertanto, sono pericolose, perché consentirebbero al partito comunista di avere completa visione e possesso delle informazioni che «passano» su quelle reti, comprese quelle più sensibili per la sicurezza nazionale di un paese.

Paure e timori legittimi, considerando la natura di Huawei – privata ma «cinese», dunque con un rapporto indefinibile per i canoni occidentali, con lo Stato e il partito comunista- ma mai suffragati da alcuna prova. (E volendo, allora, come classificare il comportamento di Google se non analogo a quello di un’azienda di Stato?)

Prima Trump ha provato per vie giudiziarie, con l’arresto della responsabile finanziaria dell’azienda, nonché figlia del fondatore di Huawei. Poi Washington ha fatto di tutto per portare con sé in questo scontro i suoi alleati, principalmente quelli europei, considerando che la Ue è «il» mercato in gioco per quanto riguarda il 5G.

Operazione semi fallita, tra indecisioni e prese di posizioni dei paesi europei (anche l’Italia è entrata in questo balletto, senza esprimere, a dire il vero, una posizione chiara e cristallina, benché tendenzialmente non sfavorevole a Huawei).

Infine è arrivato prima il «ban» – dopo un decreto esecutivo di Trump contro aziende stranieri che minerebbero la sicurezza nazionale Usa (nel decreto  non veniva citata Huawei ma era chiaramente rivolto all’azienda cinese) – poi la decisione di Google. Il «ban» era parso a tutti concentrato solo su alcuni elementi, principalmente i fornitori di microchip americani.

Tanto che il mondo mediatico si era premunito di capire se Huawei fosse preparata a questa evenienza: risposta positiva. Huawei ha fatto subito sapere di essere pronta e anzi avere già la soluzione in tasca. Dando per buona questa posizione (tenendo presente che ad oggi perfino in Cina la produzione di semiconduttori era considerata il vero «tallone d’Achille» del sistema produttivo hi-tech nazionale), ora ovviamente la partita è ben più impegnativa.

In attesa di reazioni e contro-mosse, ad ora la mossa di Trump-Google, pur con insidie perfino nei confronti degli Usa, complica e non poso la vita di Huawei e la corsa cinese alla leadership tecnologica.