Un mese fa l’Egitto andava al voto e, tra accuse di brogli e compravendita di voti, rieleggeva con percentuali bulgare ma un astensionismo al 60% il presidente al-Sisi. Nei tre giorni di urne aperte, i seggi erano stati installati anche nel governatorato del Sinai del Nord, 61 seggi per 250mila aventi diritto al voto.

Di dati certi sull’affluenza non ne sono stati forniti, solo le dichiarazioni della controversa Autorità nazionale per le Elezioni, secondo la quale nella provincia si era registrata una delle adesioni più alte del paese.

Diversi erano i racconti che uscivano dalla Penisola, sotto assedio militare dal 9 febbraio scorso: con i giornalisti presenti non accreditati per visitare i seggi e il divieto ai fotografi a scattare foto, sembra che nessuna fila si sia vista alle urne perché le file erano altrove, di fronte ai negozi di alimentari, riaperti per poco tempo proprio il lunedì delle elezioni.

Pochi sono andati a votare, tutti erano in fila per il cibo; anche gli scrutatori che hanno chiesto permessi per potersi anche loro mettere in fila fuori dai negozi. Legumi, pesce, uova, pollo, pomodori, tonno, ceci e fagioli rifacevano la loro apparizione tra comunità affamate, da tre mesi soggette all’operazione «Sinai 2018», campagna militare di ampia scala contro i gruppi islamisti radicali presenti e condotta da esercito e unità speciali della polizia egiziana.

Dal 9 febbraio scorso ad oggi il Sinai del Nord è zona off limits. Nell’assenza di giornalisti, le poche notizie che arrivano sono quelle ufficiali dell’esercito che dieci giorni fa dava un bilancio di 200 terroristi uccisi, a fronte di una perdita di 20 soldati, e che il 18 aprile annunciava l’uccisione del leader dell’Isis nella zona, l’emiro Nasser Abu Zukul.

Poco altro esce, anche a causa dei continui blackout delle reti di telecomunicazione imposti dalle autorità, che si aggiungono al costante taglio di elettricità e acqua corrente. A parlare della situazione sono i residenti, quelli raggiungibili da agenzie indipendenti come Mada Masr e da organizzazioni internazionali come Human Rights Watch.

La prima riporta da settimane di chiusure di scuole, università e uffici pubblici, arresti arbitrari, chiusura delle stazioni di benzina, assalti ai camion dell’esercito (i soli autorizzati a entrare in Sinai) che portano con scarsa frequenza beni alimentari di prima necessità.

Ieri conferma alle denunce della stampa indipendente è stata data da Hrw che in un breve rapporto ha accusato il governo egiziano di aver provocato, con l’assedio, una crisi umanitaria vera e propria: «420mila residenti in quattro città nord-orientali hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. I residenti riportano di una grave diminuzione di cibo, medicinali, gas da cucina e altri beni essenziali». «Un’operazione di controterrorismo – aggiunge la direttrice di Hrw per Medio Oriente e Nord Africa, Sarah Whitson – che impedisce l’arrivo di beni essenziali a centinaia di migliaia di civili è illegale e difficilmente smorzerà la violenza».

Al contrario potrebbe alimentarla: la crescita dei gruppi islamisti radicali in Sinai e di sigle direttamente legate ad al Qaeda e Isis è riconducibile anche alla marginalizzazione economica e politica delle comunità locali, con la conseguente forza di attrazione di cui certe milizie godono soprattutto tra giovani disoccupati.

Le perquisizioni arbitrarie, gli arresti ai checkpoint militari, le confische di telefoni e pc, l’annullamento della libertà di movimento – tutte realtà denunciate da Human Rights Watch – sono vissute come l’ennesima vessazione che poco ha a che vedere con l’anti-terrorismo visto che è una realtà radicata nel tempo.

Il Cairo prova a metterci una pezza: dieci giorni fa il premier Ismail ha annunciato un piano quadriennale di investimenti, 12,6 miliardi di euro, per lo sviluppo della Penisola.