Il Memorandum d’Intesa firmato da Italia e Governo di accordo nazionale libico (Gna) nel 2017, rinnovatosi automaticamente lo scorso 2 febbraio, deve essere sospeso finché la Libia «non si impegnerà a un piano chiaro per garantire il pieno rispetto della sicurezza e dei diritti dei migranti».

A dirlo è un rapporto pubblicato l’altro ieri da Human Rights Watch. Secondo l’ong, i centri di detenzione dovrebbero essere chiusi e i migranti protetti dai trattamenti inumani e degradanti che continuano a subire. Finora, però, il governo Conte promette fuffa: il ministero degli Esteri italiano guidato da Di Maio ha annunciato lo scorso 9 febbraio di aver inviato a Tripoli delle «modifiche» che, afferma, aumenteranno la loro protezione.

Ma che non cambieranno la sostanza dei fatti: la Libia non è un «porto sicuro» dove rispedire migliaia di persone intercettate in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica.

Lo ha detto a metà gennaio il segretario dell’Onu Guterres e lo ha ripetuto due settimane dopo la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, che ha invitato il nostro paese «a sospendere urgentemente» la cooperazione con la Guardia costiera libica «fino a quando non ci saranno chiare garanzie sul rispetto dei diritti umani».

Ma il governo finge di non vedere e tira dritto cercando di ritagliarsi un ruolo da protagonista sul dossier libico. Ieri Di Maio ha terminato una visita di due giorni nel paese nordafricano dove ha incontrato a Tripoli e Bengasi i principali protagonisti della crisi libica: il premier del Gna al-Sarraj e il suo nemico giurato, il capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) Haftar.

Ha parlato anche d’immigrazione, discutendo con Haftar «della messa in sicurezza dei confini marittimi e di come impedire l’infiltrazione di elementi di gruppi terroristi e criminali via mare».

A tutti i suoi interlocutori Di Maio ha poi ribadito di seguire la via politica tracciata nel summit internazionale di Berlino dello scorso 19 gennaio.

Una via morta e sepolta già al suo concepimento: mentre il generale (ex nemico dell’Italia) lo ascoltava, i suoi jet bombardavano l’aeroporto di Mitiga costringendolo nuovamente alla chiusura. Non solo: corpi di mortaio cadevano alla periferia meridionale della capitale, uccidevano una donna e ferivano altre quattro persone.

Eppure solo poche ore prima il Consiglio di sicurezza Onu approvava una risoluzione che ribadiva la necessità per un cessate il fuoco duraturo.

Non è la prima volta che la diplomazia parla una lingua diversa da quello che avviene sul campo. La duplicità della Libia non è solo militare esemplificata nella guerra tra Gna e Haftar. Ma è prima di tutto quella raccontata dalla diplomazia e quella invece vissuta dai civili.

Quella di Di Maio o del suo omologo tedesco Maas che parla di «progressi» in vista di dopodomani a Monaco dove si incontreranno per la prima volta il Comitato dei seguiti e i gruppi di lavoro per attuare i risultati di Berlino. E quella dei civili sotto attacco e, soprattutto, dei più deboli tra loro: i migranti.

Tre giorni fa 116 sudanesi detenuti nel centro di detenzione di Kufra sono stati riportati in Sudan dopo essere entrati «illegalmente». «Oltre 60 di loro – ha detto il direttore della struttura – erano senza documenti ed erano portatori di gravi malattie infettive». Gli untori del 21esimo secolo.