Il parlamento greco si prepara ad esaminare il disegno di legge messo a punto dal governo che dichiara la Turchia Paese terzo sicuro. Si tratta di uno dei passaggi necessari per dare attuazione all’accordo del 18 marzo scorso tra Unione europea e Ankara che consentirà di rispedire oltre il mar Egeo i migranti arrivati sulle isole greche a partire dal 20 marzo scorso, giorno dell’entrata in vigore dell’intesa (altro passaggio fondamentale sarà probabilmente l’esame dell’accordo stesso da parte dei parlamenti degli Stati membri).

L’approvazione del disegno di legge dovrebbe segnare l’avvio ufficiale all’operazione voluta da Bruxelles per fermare gli arrivi in Europa di quanti fuggono dalla guerra, anche se si tratterà di una partenza solo formale. Nei fatti, è molto probabile che ancora per molte settimane nessuno dei profughi e dei migranti economici arrivati a Lesbo, Chios, Kos o in un’altra isola dell’Egeo venga riportato a forza in Turchia. Almeno se verranno rispettate le convenzioni internazionali. Le richieste di asilo devono infatti essere esaminate individualmente e in caso di risposta negativa è prevista la possibilità di fare ricorso. Tutte procedure che richiedono tempo, anche se Bruxelles preme in tutti i modi per velocizzarle al massimo. Fino a oggi infatti, nonostante gli appelli di Frontex agli Stati europei perché mettano a disposizione di Atene almeno 1.500 tra poliziotti e funzionari addetti all’esame delle richieste di asilo, a vagliare le domande dei rifugiati ci sono solo una ventina di funzionari greci.

Conseguenza di questo stato di cose è che presto gli hotspot allestiti sulle isole saranno sovraffollati. Gli sbarchi in Grecia continuano infatti a essere numerosi, anche se inferiori rispetto ai numeri registrati fino a qualche mese fa. Dopo una flessione iniziale nei giorni successivi alla firma dell’accordo con Ankara – e dovuta probabilmente al maltempo che ha reso difficile la traversata dell’Egeo – gli arrivi sembrano essere di nuovo in salita. Più di 700 solo ieri a Lesbo, che rischiano adesso di far scattare l’emergenza a Moria, uno dei due hotspot dell’isola nel quale già ieri si contavano oltre 2.000 uomini, donne e bambini mentre ne potrebbe ospitare al massimo 1.500. Persone che che contrariamente a quanto accadeva fino al 20 marzo ora non possono uscire dalla struttura (un ex carcere trasformato prima in centro di accoglienza e poi in hotspot), cosa che ha provocato la reazione dell’Unhcr e Medici senza frontiere che per protesta hanno sospeso alcune delle loro attività pur mantenendo una presenza quotidiana all’interno del centro. Ma il pericolo è che vengano violati anche altri diritti riconosciuti internazionalmente. «Per essere rimandati in Turchia i migranti devono poter contare sulla protezione internazionale e questa non è garantita a iracheni e afghani» spiega Michele Telaro, responsabile a Lesbo per Msf. La Turchia applica infatti la convenzione di Ginevra limitatamente ad alcune aree geografiche. «Questo significa che in Turchia gode di protezione internazionale chi fugge da fatti accaduti in Europa, ma non iracheni e afghani». Perché questo avvenga sarebbe necessario che Ankara modificasse le sue leggi cosa che, seppure avvenisse, richiederebbe ulteriore tempo. Con i migranti sempre prigionieri negli hotspot, l’accordo potrebbe così trasformarsi in un boomerang per Bruxelles.