Per soli 4 voti (312 contro 308) il “no deal” sulla Brexit è stato respinto ieri sera dal parlamento britannico, con un voto su un emendamento, poi un secondo voto ha confermato questa posizione (321 contro 278). Altri voti seguiranno, oggi quello sull’estensione dei tempi di uscita. La Brexit assomiglia sempre di più all’Hotel California: «This could be Heaven or this could be Hell, we are all just prisoners here, you can checkout anytime you like but you can never leave».

Prima del voto, un gruppo di deputati britannici ha proposto un’estensione dell’articolo 50, il processo di uscita dalla Ue, fino al 22 maggio, per permettere di redigere una serie di accordi provvisori tra Gran Bretagna e Unione europea, che potrebbero restare in vigore fino al 2021, per dare il tempo di definire le «relazioni future»: bocciato. La Gran Bretagna propone un taglio temporaneo dei dazi su una parte delle importazioni (auto, alimentari), per 12 mesi, per evitare che vengano messi controlli alla frontiera tra le due Irlande. Ma la Ue ormai è stanca, dopo due anni di negoziati, due voti a Westminster contro l’accordo raggiunto tra Londra e Bruxelles (il 15 gennaio poi di nuovo martedì 12 marzo) e il rischio sempre più vicino di un’uscita catastrofica, più per accidente che per una decisione ragionata, insomma «una catastrofe» secondo l’ex premier Cameron, mentre Theresa May è rimasta silenziosa. Ieri, la Germania ha messo in guardia: «Una Brexit ordinata è nell’interesse di tutti», ha detto la cancelliera Angela Merkel. Molto più duro il ministro degli Esteri, Heiko Maas: «La Gran Bretagna gioca con negligenza con il benessere dei cittadini e dell’economia». Il presidente francese Emmanuel Macron, dal Kenya, ha aperto alla possibilità di «tempi tecnici» possibili prima di cadere nel dirupo, «ma non per rinegoziare», ha precisato. Manfred Weber, capogruppo Ppe, è stato più categorico: non ci sarà «un giorno di più» per i tentativi di tirare per le lunghe da parte di Londra «se non c’è un’alternativa credibile». Per il negoziatore europeo, Michel Barnier, «il negoziato è terminato». Barnier ripete quello che dicono tutti a Bruxelles: «La Gran Bretagna deve dire cosa vuole per la relazione futura». Per il presidente del Consiglo Ue, Donald Tusk, la richiesta di estensione dell’articolo 50 potrà essere accettata (ci vuole l’unanimità dei 27) solo se da Londra arriveranno «richieste ragionevoli» e «giustificazioni credibili» (cioè un nuovo referendum o elezioni anticipate).

Per la Ue è un rompicapo giuridico: qualche settimana di estensione è possibile, alcuni ammettono fino a fine giugno, prima della riunione inaugurale del prossimo europarlamento, il 2 luglio. Ma c’è un rischio giuridico sul voto del 23-26 maggio e i britannici potrebbero essere obbligati a partecipare. Un assurdo.

Intanto la Ue si prepara al no deal. È dalla fine del 2018 che la Ue ha cominciato a organizzarsi concretamente a un’uscita senza accordo. Sono già stati varati o sono in corso di approvazione 19 testi, tra direttive e regolamenti, per evitare che dal 29 marzo a mezzanotte regni il caos. Le connessioni aeree verranno garantite, ma nei limiti del traffico del 2018 (e Londra avrà 6 mesi per mettersi in conformità con le richieste Ue). Ci sarà un’esenzione dei visti per i cittadini britannici, per 90-180 giorni di soggiorno nella Ue, ma non sono ancora definiti i diritti dei 3 milioni di europei residenti in Gran Bretagna e del milione di britannici nella Ue. Gli studenti Erasmus (14mila della Ue in Gran Bretagna, 7mila britannici nella Ue) avranno la garanzia di portare a termine il progetto. Ci sono misure per la pesca, per evitare una guerra sui diritti nelle rispettive acque territoriali.

L’economia non sfuggirà agli scossoni di un ritiro disordinato: il 44% dell’export britannico va verso la Ue, il 54% dell’import arriva dalla Ue. La Francia ha preso provvedimenti per le dogane, ma i doganieri stanno facendo lo sciopero dello zelo e ci sono già code enormi a Calais, Dunkerque e anche alla Gare du Nord per l’Eurostar Parigi-Londra (50 milioni di tonnellate di merci viaggiano su camion tra la Gran Bretagna e la Ue).

Un’uscita «ordinata» potrebbe riprendere il modello norvegese – l’ipotesi è stata evocata ieri dal ministro del Tesoro Philip Hammond – ma Londra dovrebbe pagare i 45 miliardi della separazione e continuare a contribuire per 10 miliardi quest’anno per finanziare i programmi in corso.