Per Virgilio le cose sono radicalmente cambiate all’inizio del Novecento grazie soprattutto a due colpi di fucile tedeschi. Il primo, di Richard Heinze, liberò l’Eneide dall’incantesimo a cui l’avevano sottoposta i romantici. La sua monografia Virgils epische Technik, uscita nel 1903, «è forse il più bel libro (bello nel senso di rigoroso, autorevole, completo, chiaro) che sia stato scritto su Virgilio» (Franco Serpa). Nello stesso anno usciva, per la serie dei commenti scientifici della Teubner, il grande Kommentar di Eduard Norden al sesto Libro dell’Eneide, destinato anch’esso a cambiare in profondità il modo di leggere e spiegare l’epica di Virgilio. Oltre al saggio introduttivo sulle ‘sorgenti’ escatologiche degli inferi virgiliani e a una versione del testo latino letterariamente impegnata (come da consuetudine espressiva arrivata sino a Conington), le principali linee di forza di Norden erano le acute osservazioni di retorica, stilistica e metrica e, nelle famose appendici tematiche, i tratti della ‘tecnica epica’ di Virgilio – come le «reminiscenze enniane» – indagati sistematicamente con metodo moderno. Né va trascurato l’effetto, dirompente per l’epoca, del formato editoriale. Nessuno osava più avvicinarsi al VI dell’Eneide per evitare un paragone schiacciante. Il tabù fu parzialmente infranto quando nel 1977 a Oxford apparve il commento di Roland G. Austin – al quale però la malattia aveva impedito di esprimersi all’altezza di sue precedenti prove virgiliane.

Adesso un altro ‘suddito di Sua Maestà’, Nicholas Horsfall, associa il proprio nome al Libro che per un secolo è rimasto, nella coscienza dei virgilianisti, ‘di Norden’: Virgil, ‘Aeneid’ 6 A Commentary, due volumi pubblicati in inglese dall’editore tedesco De Gruyter (pp. XL-61 e pp. 706, s.i.p.). Il commento vero e proprio è seguito anche qui da tre brevi appendici, ma di natura diversa, soprattutto la seconda e la terza ‘autobiografiche’. L’autore vi sceneggia il curriculum, i maestri, gli amici di una vita di studi, e confessa tutto il debito verso lo studioso tedesco col cui fantasma ha dialogato e ‘combattuto’ ogni giorno per tutti questi anni. L’ammirazione culmina in un visionario incontro ultraterreno da Somnium Scipionis, ma ciò non ha impedito a Horsfall di sottolineare senza tentennamenti i punti di disaccordo. Tuttavia non c’è mai il colpo di spugna, al contrario una particolare disposizione intellettuale – da conoscitore della storia della filologia classica – a comprendere in che modo un esponente di rango come Norden avesse «ricercato la propria strada nella mente di Virgilio».

Che ‘razza’ di studioso è, invece, Nicholas Horsfall? Non appartiene ad alcuna tribù, e si è sempre mantenuto ‘independent scholar’ nel panorama delle scuole e degli indirizzi. Nel sito dell’Università di Durham, Scozia, dove egli è «professore onorario aggregato», compare un breve profilo chiaramente autoredatto e alquanto unofficial: «…Allievo di Kenney e Brink, Fraenkel [Eduard, ndr], Nisbet, e, soprattutto, Hubbard. […]Docente all’University College di Londra dal ’71 all’87, andò a vivere in Italia (1987-2000), dove ha insegnato in maniera irregolare e scritto moltissimo. È, ed è stato per anni, più vicino agli studi classici europei che non britannici. Ma oltre ai classici c’è la vita, che implica cibo e vino, gatti, storia militare, cricket, musica di epoche diverse, problemi di scacchi, romanzi polizieschi. La necessità di spaccare trenta tonnellate all’anno di legna da ardere ha ridotto l’energia che era solito riservare al lavoro critico». Evidentemente per comprendere a fondo Virgilio e farne una buona edizione non c’è bisogno di rinunciare a vivere, né di rimanere attaccati a una baronia universitaria. Non sempre il vissuto costituisce un accesso promettente alle fatiche dei filologi, preferibilmente viene utilizzato per i romanzieri; ma nel caso di Horsfall certi dati ‘esistenziali’ come la cornice geografica e le condizioni materiali del lavoro non rimangono del tutto fuori dai lemmi. Anche su questo commento, delle impronte deve averle lasciate il paesaggio: la Scozia settentrionale, dove lo studioso vive isolato da quando lasciò Oxford, una delle sedi più prestigiose al mondo per lo studio del latino. È lì adesso che ce lo figuriamo, come un Sant’Agostino di Carpaccio munito di internet e Adsl.
Dalla ‘autobiografia intellettuale’ collocata nelle citate «appendici» («Cinquant’anni alle calcagna della Sibilla») apprendiamo che i primi commerci con Eneide 6 a Londra risalgono agli anni in cui furoreggiavano i Beatles. Completati gli studi, per molti anni Horsfall avrebbe versato la sua dottrina esclusivamente in stampi di piccole dimensioni: contributi stringati e stringenti, che alle «interpretazioni globali» – teorie del punto di vista, orizzonti di attesa e specchi infranti – preferivano le analisi minute della tecnica compositiva e la ricostruzione della cosiddetta biblioteca alessandrina di Virgilio. A un certo punto dovette convincersi che era giunto il momento di dare un più compiuto ‘format’ editoriale (come intuì Barchiesi) a una così vasta e puntuale conoscenza del suo autore, e in età ormai matura passò dalle sonate alle sinfonie. Ecco la serie di commentaries a singoli libri dell’Eneide, 7, 11, 3, 2 nell’ordine, tutti pubblicati in Germania dall’editore Brill tra il 2000 e il 2008 – quasi un derby con i commenti oxoniensi degli anni sessanta-settanta. Il panorama degli studi virgiliani era cambiato: Horsfall oggi censisce in tredici punti capitali la svolta metodologica e bibliografica che ha modificato anche il suo «modo di lavorare e di pensare» da quando ragazzo frequentava, come figlio di ufficiale, l’attico del londinese Churchill Club. «Cinquant’anni fa a scuola questi versi erano molto meno interessanti», scrive per esempio a proposito della connotazione letteraria e liturgica, già pienamente romana, del sacrificio rituale compiuto da Enea prima della catabasi. Dopo duemila anni il testo di Virgilio continua a crescere nella competenza e nella cosicienza dei suoi lettori.

Non appaia esagerato parlare di impresa per contributi di simile rango e mole. Come un Alcide, l’autore deve affrontare a viso aperto diversi ‘mostri’ allotropi, compattare e gestire migliaia di informazioni, spogliare molte biblioteche e molte vite. In pratica ogni esametro, ogni lemma dell’Eneide trascina con sé un’intera letteratura specifica. Certamente sigle, abbreviazioni, acronimi fanno risparmiare spazio, ma come per i dizionari conferiscono un aspetto molto poco friendly alla pubblicazione; per fortuna proprio al cuore delle disquisizioni più erudite e sottili può giungere inaspettata la voce di Horsfall, con effetto quasi sempre collutorio, o umoristico. È quel che avviene in una delle sezioni strategiche del VI Libro, quella del ramo d’oro – che lo studioso inglese aggredisce, coerentemente con la sua visione critica, sul piano squisitamente letterario, tenendo cioè a distanza le congetture esoteriche e le contaminazioni folkloriche di James Frazer. Nel corso della lunga e articolata nota introduttiva, a un certo punto viene riassunta la disputa sulla misteriosa natura del fatale golden bough, «cunctantem» allo strappo del predestinato Enea (pace Segal): è d’oro ma si piega e resiste, dice appunto naturalisticamente il testo. Quasi per uscire dal Meraviglioso, il poeta introduce la similitudine del vischio (‘mistletoe’ in inglese), che ha ulteriormente moltiplicato i pareri dei filologi ‘nemorensi’: così quando si imbatte in un tale Nelis, che propone di accostare l’ilex di Virgilio a una drûs di Apollonio Rodio, Horsfall perde la pazienza: «le vedo entrambe dalla finestra del mio studio: sono piante che neppure un inesperto potrebbe confondere, anche se formalmente entrambe appartengono al genus delle querce…». ‘Botanica, e stupidaggini’ è il titolo del paragrafo, ma la vittima principale è proprio Virgilio («V. is wrong on the botanical detail»).

Si diceva del ‘labor improbus’ che tocca al filologo contemporaneo, sia pur armato di pc, data-base e biblioteche on line. Certo fino all’epoca di Norden ancora erano ben distinguibili le sagome dei grandi commenti ottocenteschi a piè di pagina (Conington, Heyne), nei quali si trovava distillata tutta la millenaria scoliastica virgiliana, da Servio a la Cerda. Nel frattempo, anche sotto l’incalzare della rivoluzione innescata da Heinze, i modelli letterari che presiedevano a quei commenti quasi interamente assorbiti dall’esegesi testuale, sono stati via via sostituiti in epoca moderna da visioni d’insieme sempre più interessate a riorientare, come si fa con un’antenna parabolica, la ricezione virgiliana delle origini italiche e mitologiche di Roma; o il rapporto strutturale dell’Eneide con le attese della casa regnante, o la sua relazione profonda, non solo imitativa, con i poemi omerici. Queste ‘ideologie’ si sono presto esaurite in conflitti d’interpretazione delle cornici, più che del quadro (il caso esegetico più sanguinoso resta l’uccisione di Turno). Horsfall viceversa non è mai stato attratto dalle teorie letterarie, preferendo coltivare pazientemente i suoi esigenti fiori: gli autori greci e latini ‘nascosti’ nei versi dell’Eneide, la caccia implacabile e divertita alla nozione antiquaria che risolve una metafora rimasta oscura, gli errori ‘intelligenti’: quanto è attendibile Virgilio come ‘topografo’?

Ecco un altro tema centrale di questo VI Libro, che ha suscitato il vivo interesse di Horsfall e che storicamente trovò adepti non solo tra i filologi pedanti ma anche tra i viaggiatori, intellettuali e artisti che allegramente si recavano in Lazio e Campania sui luoghi del poema per riscontrarne, con emozione o disppunto, la veridicità topografica: qui Enea ha eretto il sepolcro a Miseno, questo è l’antro della Sibilla… Neppure gli scavi e i rendiconti di Amedeo Maiuri hanno convinto Horsfall, recatosi a Cuma nel periodo in cui viveva in Italia. Il verisimile e il naturale dei poeti non sono mai la trasposizione linguistica della ‘realtà’: un vecchio problema… In tutto questo, per tornare alla ‘forma’ del commento, la riluttanza e la pazienza di Horsfall non sono poi così superflue, ed è persino un piacere, qualche volta, vederlo combattere con le ombre, proprio come Enea.

Non è certo questa la sede per una recensione ‘scientifica’, tuttavia sia concesso un ultimo prelievo, a suo modo esemplare dello stile di Horsfall: disporre ipotesi e dotarle di «prove», senza però chiudere l’inchiesta. Si tratta di una celebre similitudine che indica un modello probante della complessità intellettuale e poetica che Virgilio è in grado di conseguire. Varcato l’Èrebo, Enea finalmente rivede il padre Anchise laggiù, in fondo a una verde vallata. Tenta invano di abbracciarlo per tre volte, poi la sua attenzione si sposta su un boschetto appartato dove si affolla una gran moltitudine di anime («innumerae gentes populique») «come quando nei prati, un’estate serena, le api / vanno a posarsi sui fiori più vari, spargendosi intorno / ai gigli candidi; e il campo intero ronza a quel murmure…» (VI, 707-9, tr. Alessandro Fo). Enea, inscius, ne rimane atterrito. Ma perché paragonare le anime alle api? I commentatori si rifanno alla solida tradizione letteraria che rappresenta le anime in forma di ape o di uccello, perciò in grado di volare. Per il filosofo neoplatonico Porfirio (che cita Sofocle) le api sono l’immagine dell’anima umana che attende di reincarnarsi. È una lettura carica di connotazioni. Ma le api di Virgilio hanno «altro nettare da offrire» oltre a quello dei cliché consueti (poesia come miele, ecc.).

La reazione terrorizzata di Enea ci fa intuire che qualcosa di portentoso sta per accadere, e il portento ‘indicato’ dalle api è probabilmente la fondazione di Roma, la città a cui pochi versi oltre Virgilio «dedicherà» la parata transtorica degli eroi che, sino ad Augusto, ne illustreranno la grandezza. Un tipo di interpretazione facilmente riconducibile alla scuola simbolistica di Viktor Pöschl – e questo è soltanto uno dei molti livelli ermeneutici dell’officina di Horsfall. È interessante a questo proposito andare a rileggere una sua ‘dichiarazione di poetica’ in una recensione del 1979, tutt’altro che favorevole, a un recente commento di Fordyce ai libri VII-VIII dell’Eneide: «Oltre le note testuali, linguistiche, e metriche – scriveva –, il commentatore virgiliano deve essere dotato di curiosità infinita e indefessa industriosità: egli sarà chiamato ad ammassare idee e informazioni su un ampio raggio di argomenti, spesso oscuri e complessi, se intende fare luce sul suo autore in modo appropriato. Pease, Austin (notevole il suo Aen. 2), e Norden sono i soli commentatori dell’Eneide che in questo secolo hanno svolto il proprio compito con una adeguata misura di ampia erudizione». I lettori di questo Virgil, ‘Aeneid’ 6 avranno modo di verificare nei prossimi anni la tenuta (e il rinnovamento?) dei principii a suo tempo enunciati, ma non vorrei lasciar cadere l’espressione «illuminate his author», ‘fare luce sul suo autore’, che non è affatto esornativa, ma tecnica. È stato detto, facendo ricorso a un’altra metafora, che il commento è come una rete gettata sul testo: alcune cose le trattiene, altre le lascia passare.

«Fare luce» allude piuttosto a una dimensione tradizionale e scolastica, quella dei grammatici antichi ma anche dei tedeschi, formidabili cacciatori di fonti. Nel frontespizio delle loro edizioni commentate (anche la prima di Norden) Virgilio è appunto erklärt. Nicholas Horsfall, cresciuto «all’ombra di Norden», non intende emanciparsi da questa condanna del servitium filologico: illuminare il testo, e prima di tutto il suo autore.