Horacio Quiroga, vite ai confini della vita
Scrittori uruguaiani Racconti di una frontiera non solo geografica, dove gli animali hanno il dono della parola e gli uomini vi cercano rifugio per vivere a contatto con la morte: «Gli esiliati», da Bompiani
Se la verità fosse davvero nel mezzo, come afferma un detto tra i più falsi e corrivi, quella che riguarda Horacio Quiroga la si dovrebbe cercare a metà strada tra una velenosa battuta Jorge Luis Borges – «Ha scritto alcuni racconti che aveva scritto meglio Kipling» – e la venerazione con cui Roberto Bolaño lo metteva in cima alle letture obbligate per chiunque volesse arrischiarsi nell’arte del racconto. Questo implicherebbe però che Quiroga sia stato un po’ un emulatore di modelli e un po’ un modello da emulare: in realtà è stato pienamente sia l’uno che l’altro. La schiera di coloro che ne hanno fatto un riferimento comprende, oltre a Bolaño, giganti della letteratura latino-americana quali Juan Rulfo e Julio Cortázar. Quanto ai motivi per cui Borges non lo soffriva, Quiroga considerava le influenze un fatto così evidente e imprescindibile da farne il primo comandamento del suo Decàlogo del perfecto cuentista: «Credi in un maestro – Poe, Maupassant, Kipling, Cechov – come in Dio stesso». Anche la terza raccomandazione verteva sullo stesso argomento, invitando gli aspiranti scrittori a non resistere all’imitazione qualora l’influsso fosse troppo forte, perché «lo sviluppo della personalità è, più di qualsiasi altra cosa, frutto di estrema pazienza».
Il suo famoso Decalogo comparve su una rivista nel 1925 e va inteso come una replica ironica allo scetticismo, se non alla vera e propria indifferenza con cui la fronda più giovane della scena letteraria di Buenos Aires guardava a un autore che, pur letto e apprezzato, veleggiava ormai per i cinquanta e aveva il torto di essere un provinciale troppo legato al passato e al suo continente. In effetti, venticinque anni prima, allo scoccare del nuovo secolo, Quiroga aveva anche tentato il viaggio a Parigi, passo equivalente al Grand Tour per un borghese ispano-americano di allora. Gli esiti erano stati infelici. Aveva faticato a inserirsi nei circoli e nei caffè e si era ridotto a chiedere l’elemosina per poi tornare in patria, a Montevideo, senza niente, a parte una folta barba destinata a diventare il suo tratto distintivo.
Dall’Uruguay all’Argentina
Neanche il ritorno era stato indolore: non molto dopo, nel pulire un fucile, aveva ucciso per sbaglio il suo migliore amico. Il tragico incidente l’aveva spinto a lasciare per sempre l’Uruguay, a trasferirsi a Buenos Aires fino alla svolta: un nuovo viaggio, la partecipazione, nel 1903, a una spedizione nelle terre di Misiones, al confine tra Argentina, Paraguay e Brasile. Quel «paesaggio dell’era primaria» lo aveva colpito al punto da vedervi una nuova casa, il luogo dell’esilio ideale in cui trovare ispirazione. Vi sarebbe restato legato anche quando la prima moglie, che poco aveva condiviso la scelta di stabilirsi nella selva, si tolse la vita ingerendo dicloruro di mercurio.
La terra selvaggia di Misiones diventò così l’oggetto della sua scrittura. Il suo libro più bello e rappresentativo, Gli esiliati (ora da Bompiani, curato e magnificamente tradotto da Ilide Carmignani, pp. 129, € 12,00) racconta infatti di una regione di frontiera dove gli uomini discutono a colpi di machete o Winchester, dove si fumano sigarette fatte con cartocci di mais, dove persistono due dogmi fondamentali – la schiavitù dell’indigeno e l’inviolabilità del padrone – e dove gli stranieri vengono chiamati tutti francesi, qualunque sia la loro nazionalità. Racconta tanto i suoi animali, che hanno il dono della parola e che quella terra la abitano per diritto di natura, quanto gli uomini che, come Quiroga e spesso più radicalmente di lui, vi hanno trovato rifugio, come fossero palle da biliardo ovvero come individui nati grazie a un qualche effetto: uomini che «toccano normalmente la sponda ma poi prendono le direzioni più inaspettate».
Gli esiliati è diviso in due parti. La prima, intitolata «L’ambiente», comprende un solo racconto e traccia le coordinate, introduce lo scenario che farà da sponda alle palle da biliardo giunte dal mondo civilizzato e in cui un giovane serpente femmina, un boa di dieci metri, convince gli altri animali a unirsi a lei nella creazione di uno sbarramento che impedisca agli uomini di risalire il fiume e contaminare la selva col loro fetore, la loro «miserabile ansia di vedere, toccare e tagliare». È una favola dove trapelano però già i toni corrotti del racconto per adulti, a lasciare intendere che l’uomo è un male incontenibile. Ecco infatti apparire gli uomini, anzi i tipi, per stare al titolo della seconda parte, una galleria di personaggi al limite, «pittoreschi» nella definizione che ne dà Quiroga, tutti accomunati da l’esilio e dalla morte. Dire che si tratta di fuggitivi sarebbe una semplificazione eccessiva e fuorviante. In alcuni casi è certamente innegabile che costoro si siano lasciati il mondo alle spalle, ma non sempre l’addio è stato determinato da un motivo preciso.
Prendiamo il caso di Juan Brown giunto per stare un paio d’ore, il tempo di vedere le rovine gesuitiche e andarsene: dopo quindici anni è ancora lì e non perché il posto gli interessi particolarmente ma solo perché a suo dire non vale la pena fare altro. Come se quel luogo di frontiera, sul limitare di una foresta immensa, svuotasse di senso il resto, e la vita si rivelasse per ciò che è, una divagazione prima dell’uscita di scena. Il che ci porta al secondo elemento comune: in tutti questi racconti, incluso quello del serpente, c’è un uomo morto.
Le ragioni di una scelta
Uno si intitola perfino così, L’uomo morto, e suona quasi una presa in giro, visto che non si parla d’altro in tutto il libro: di gente che prima o poi muore nei modi più diversi, modi a volte singolari, quando non proprio assurdi. Dunque, i tipi di Quiroga sono andati a Misiones, per morire? In un certo senso, sì. Del resto è comprensibile, perché anche lo scrittore si trovò più volte a fare i conti con la scomparsa cruenta di persone care. Egli stesso finirà per avvelenarsi come la moglie, uccidendosi con del cianuro. E tuttavia la risposta corretta è che questi tipi scelgono l’esilio non per morire ma per vivere al confine con la morte. Anzi, a voler essere ancora più precisi, per condurre una vita di confine in tutti i sensi.
Le storie di questi uomini, scrive Carmignani, germinano non soltanto da una frontiera geografica, «ma anche dalla linea di contatto e di conflitto tra foresta vergine e civiltà, tra mondo animale e mondo umano, tra normalità e follia» fino alla linea di contatto più estrema, quella appunto in cui l’uomo si trova costantemente affacciato sulla prospettiva della morte, e ciò non perché sia più facile morire in un luogo di frontiera che altrove, ma perché l’uomo al confine si è già congedato, è una sorta di ex uomo, un individuo che vive senza più divagazioni, senza attendersi chissà quali cambiamenti o imprevisti. Non per niente spesso questi ex uomini muoiono mentre cercano di tornare a casa, impresa evidentemente impossibile per loro, visto che a casa ci sono già, nella terra che hanno scelto: l’esilio, la frontiera.
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