Un genio di quella semplicità che non fa rima con banalità. Horace Silver se ne è andato mercoledì scorso, nella sua casa di New Rochelle, New York, all’età di 85 anni. Ma resterà, come si dice in questi casi, nella storia del jazz. Soprattutto per il modo in cui ha fissato nei primi anni Cinquanta i canoni e gli orizzonti del cosiddetto hard bop. E per una manciata di standard, di pagine entrate nel repertorio comune della musica african-american: Sister Sadie, Senor Blues, Blowin’ the Blues Away, Peace, Filthy McNasty, The Preacher.

E soprattutto Song for my Father, del 1964, con quel riff di pianoforte scolpito nel ritmo, che a intervalli irregolari tornerà e ritornerà come un cibo prelibato, gradito in egual misura ai palati raffinati e ai campionatori trangugia-tutto. Gli Steely Dan ne prelevarono di sana pianta l’incipit e lo trapiantarono in Rikki Don’t Loose That Number, che nel 1974 arrivò al numero 4 delle classifiche americane, performance che alla band di Donald Fagen e Walter Becker non riuscì mai più. Un’operazione simile venne tentata anche dagli Earth Wind & Fire di Clover. Successivamente e più compiutamente, il brano venne campionato dagli Us3 in Eleven Long Years. Era il 1993, un periodo in cui l’industria intuiva brillanti sviluppi commerciali dall’incontro tra jazz e hip hop (dello stesso anno è il capolavoro di Guru, Jazzmatazz). A puntare forte sugli Us3, per rinnovare drasticamente la sua immagine, era la Blue Note, la storica etichetta jazz per la quale Silver aveva inciso dalla metà degli anni 50 in poi una ventina di titoli.

http://youtu.be/S1CilMzT55M

Song for my father, ovvero Cantiga para meu pai, insomma una «canzone per papà» che nel quintal, il cortile di casa, a Capo Verde, la sera intavolava con i suoi amici interminabili tocatinhas, quelle che nel jazz si chiamano session informali. Il signor Silva, poi americanizzatosi in Silver, suonava chitarra, violino e mandolino (detto con termini più propri, violão, rabeca e cavaquinho), cosa abbastanza ordinaria a Capo Verde. E ora campeggia sulla copertina dell’album, uscito nel ’65, elegantissimo e sorridente, con paglietta e sigaro. Lui che veniva da Maio, la più piccola e periferica dell’arcipelago africano. Ma suo figlio, Horace Ward Martin Tavares Silva, è nato a Norwalk, Connecticut, meta classica dell’emigrazione capoverdiana sulla rotta delle baleniere. E la frase, ricorrente nella biografie, secondo cui c’è l’influenza del folklore capoverdiano nelle composizioni del pianista, è di pura circostanza. Non c’è nulla che rimandi alla ricca tradizione musicale capoverdiana, in Silver, ma molto dell’atmosfera rilassata, del calore domestico, dei valori morali che sostengono la vita (difficile) sulle isole e la diaspora (ineluttabile) degli isolani. Un appassionato di morna e coladeira rimarrebbe deluso anche dall’ascolto di Cape Verdean Blues, l’omaggio più esplicito, ancorché astratto, che il musicista abbia riservato alle sue radici.

Non per niente si è dovuto attendere oltre mezzo secolo per ascoltare un punto di vista capoverdiano sull’argomento. Con Carmen Souza, figlia di una diaspora “minore” ed esotica che l’ha portata non a Lisbona né a Rotterdam, le città su cui ha maggiormente insistito l’emigrazione capoverdiana, ma a Londra. È stata lei la prima e l’unica a riportare a casa, con testo in creolo composto per l’occasione, questo brano nato e vissuto da tutt’altra parte.

All’epoca in cui venne composto, Horace Silver riempiva i jazz club della Costa Est e sembrava poter aprire nuove opportunità al jazz. Al suo jazz, che non era «cool» come quello che si suonava sull’altra costa degli States, non inseguiva un suono emaciato e distaccato, non estetizzava, per riconciliarla con le musiche più o meno colte del 900, la rivoluzione del be bop, ma la iniettava di un’energia terrigna, un ritmo rovente antesignano del funk, ne rivendicava le origini blues. È la nascita dell’hard bop, poi detto anche soul-jazz proprio per quegli inserti di puro groove escogitati da Silver.

Paradossalmente il primo ingaggio del pianista, che peraltro “nasce” sassofonista, arriva da un esponente di spicco dell’altra sponda, Stan Getz. Seguono frequentazioni e sedute d’incisione che portano Silver a New York, nell’orbita di Coleman Hawkins, Lester Young, Miles Davis. Del 1953 è l’incontro decisivo con un batterista tellurico come Art Blakey, che vede in Silver la sua controparte pianistica. Insieme formano i Jazz Messengers. E qui Silver conferisce equilibrio e solidità all’idea inebriante di combinare elementi blues, gospel e r’n’b in una musica che si muove ancora in un contesto boppistico. Blakey era uno che sapeva valorizzare i giovani. E a sua volta Silver, che aveva fondato di lì a poco il proprio quintetto – piano, batteria, contrabbasso, tromba e sax tenore: un vero paradigma – aprì le porte a musicisti predestinati, soprattutto trombettisti (Donald Byrd, Art Farmer, Randy Brecker, Woody Shaw) e sassofonisti (Joe Henderson, Hank Mobley, Michael Brecker, Benny Golson).

Parecchio tempo dopo, negli anni ’70, arriverà anche per lui la deriva cosmico-elettrica. Silver cerca di travasare il suo gusto per le cose semplici su un piano inclinato, tra il viaggio mistico e il manuale di autostima. È il periodo di United States of Mind, di Music to Ease Your Desease e di Silver ’n’ Strings Plays The Music of the Spheres. La critica snobba e lui, che tutti ricordano come persona sempre sorridente e disponibile, si rabbuia parecchio per questa indisponibilità a seguire l’evoluzione della sua poetica. Salvo ripensarci, sul finire degli anni ’80, quando torna a pestare sui tasti in perfetto stile hard bop.

Temi estremamente cantabili, ma innestati su armonie complesse. Il fraseggio in alta definizione, nitido e brillante, mano sinistra bluesy mentre la destra borbotta grumi di materia rocciosa destinati alla pancia dell’ascoltatore. Nei suoi assolo non c’è niente di intricato, nessun ermetismo, le note scorrono come acqua di sorgente, chiare e ben pronunciate. Una formula facile, che però se non sei Horace Silver è dannatamente difficile da ottenere.