«La poesia inglese ha bisogno di essere brutalizzata», scriveva Synge all’amico Yeats, ancora preraffaellita. L’auspicio dell’irlandese si realizzò quando, dopo la Grande Guerra, lo stagno della poesia britannica venne smosso da due americani, Eliot e Pound. Ma senza che quasi nessuno se ne accorgesse, Gerard Manley Hopkins, un gesuita inglese morto nel 1889, lo aveva già smosso eccome. Le sue poesie, tutte inedite, vennero timidamente pubblicate nel 1914 da Robert Bridges, Poeta Laureato, che non mancava di scusarsi di certi «difetti stilistici» che ne guastavano il «decoro letterario». «Se l’amico Bridges avesse pubblicato a fine Ottocento le poesie a lui affidate da G. M. H.», ha scritto Bertolucci, non ci sarebbero voluti gli americani per «svegliare la poesia inglese dolcemente assopita fra le melodiose rime tennysoniane».

«Bruta bellezza e prodezza e atto, oh, aria, fierezza, piuma, qui / fuse». È un frammento del sonetto Il gheppio, falco che in inglese, però, è detto The Windhover, cioè «Colui che si libra nel vento», e chi lo abbia visto sospeso in aria prima di calare sulla preda non potrà che apprezzare la felicità dell’inglese. Il sonetto è dedicato «a Cristo nostro Signore», e per quanti significati analogico-spirituali possa avere nella sestina, sta di fatto che nell’ottava il cuore di Hopkins «freme in segreto» per la «vittoria» e la «maestria» del rapace che fende ruotando l’aria «come tallone di pattino rade lieve in curva». E chissà che Yeats, negli anni trenta, non se ne ricordasse quando, nel sonetto in cui il cigno ghermisce Leda, lo chiama «sangue bruto dell’aria». William Empson avvertiva una dolorosa tensione tra la paziente rinuncia spirituale che il gesuita impone a se stesso e la bellezza fisica attiva del gheppio – ma sa anche che si tratta di una congiunzione di opposti in cui la forza di ciascuno prevede la sussistenza dell’altro.

Si capisce comunque come Fenoglio (che ne tradusse otto poesie) abbia potuto scrivere: «sfrenata, oseremmo dire libertina, è la fantasia di questo gesuita». E dopo averne tradotto la straordinaria Bellezza screziata, in cui vien resa «gloria a Dio per le cose chiazzate – / per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata; / per i nei rosa in puntini sulla trota che nuota…», così mirabilmente commenta questa celebrazione del pointillisme divino: «La natura è di Dio creazione e aspetto; nessuna meraviglia dunque che la natura formi gran parte della visione poetica di Hopkins … Poetare è per lui una maniera, la maniera di pregare, il suo unico possibile mezzo d’espressione nel suo dialogo con Dio … Per questo Hopkins è cosí radiante, cosí bianco, tanto che al suo confronto ci appaiono complessi e torbidi spiriti che, prima di conoscere lui, giudicavamo arcangelici: e diciamo Keats e Shelley».

Lode sia dunque anche a Einaudi che con Poesie 1875-1889 rende di nuovo accessibile il corpus di questo poeta, ripubblicando le traduzioni, corredate di ricche note, che Viola Papetti aveva dato alle stampe per Rizzoli giusto trenta anni fa, da decenni irreperibili. Con l’aggiunta, in appendice, di un non meno irreperibile testo di Manganelli del 1948 in cui l’ex brillante grecista di Oxford, «fattosi cattolico e gesuita cui l’intelligenza e l’abito danno una verticalità atroce», viene paragonato a un Campanella che «non è da amare, è da temere».

Nella bella quarta di copertina leggiamo che ciò che Hopkins più ammira nel creato è la varietà: «La sua piú intima felicità è data dal fatto che Dio non abbia costruito il mondo in modo uniforme ma che si sia disseminato in mille varianti, anche in quelle piú apparentemente insignificanti. La sua poesia insegue anche formalmente questa divina varietà mostrandone il valore profondo a tutti, credenti e non». Parole che suonano stranamente affini a quelle che Shakespeare riserva a Cleopatra: «L’abitudine non può rendere stantia la sua infinita varietà. Altre donne saziano fino alla nausea gli appetiti che suscitano, ma lei quanto più soddisfa tanto più affama. Perché a lei si addicono anche le cose più vili, tanto che i santi sacerdoti la benedicono quando è lussuriosa». Il che sorprenderà forse meno se teniamo conto che nel dramma Cleopatra viene associata tanto a Iside (che in Plutarco ha «vesti variegate» perché «è il principio femminile della natura che accoglie nel suo seno i germi vitali dell’intero universo»), quanto alla Venus genetrix di Lucrezio. D’altronde, quando Hopkins propose un suo testo mariano a un mensile dei gesuiti, la poesia (che si intitola La Beata Vergine e l’aria che respiriamo e inizia con: «Aria selvaggia, aria madre del mondo, / che m’abbraccia ovunque, / … mai esaurito, / vitale elemento; / mio piú del pane e del vino, / mio pasto a ogni momento») venne rifiutata perché, scrive Papetti, «poco rispettosa della convenzionale rappresentazione della Vergine Madre, da lui accostata alla natura generante».

A Oxford Hopkins aveva avuto come tutor Walter Pater, l’autore di Mario l’epicureo e, come rileva Hans Urs von Balthasar, suo grande interprete gesuita, «in nessun altro luogo d’Europa l’antichità platonica ed epicurea aveva avuto una così immediata presenza». A Oxford aveva insegnato anche Max Müller, autore della prima edizione del Rigveda, e da Müller Hopkins aveva trascritto la piú antica enunciazione della Trinità: «In queste tre persone l’unico Dio si mostrò, / ognuna in primo grado, ognuna ultima, non una sola, / di Shiva, Visnu, Brahman, ognuna può essere / prima, seconda, terza, tra quelle beate tre». Ed ecco che certe immagini vediche ricompaiono nelle poesie: «nubi-montagne, nubi-mucche dalle pesanti mammelle, nubi annodate o scheggiate (parvata)». Ed ecco, ancora, che in certi momenti decisivi, come quando, nel Naufragio della Deutschland, cinque suore affogano invocando Cristo nel ruggente mare invernale, il «Dio vivente», scrive Balthasar, «gli appare come un fuoco cosmico Eracliteo, quasi con l’aspetto di Shiva».

Già a un primo approccio risulta chiaro che in questa poesia rinasce l’aspra potenza allitterata dell’antica poesia anglosassone. Ma Hopkins dichiarò anche di sentirsi mezzo gallese e si cimentò nelle intricatezze del cynghanned, forma praticata dai bardi fino al Cinquecento – ma anche, nel Novecento, da Dylan Thomas (imperdibile, su YouTube, la sua portentosa esecuzione di La grandezza di Dio). In ogni caso, quanto di più distante dalla nostra tradizione. Per la propria metrica Hopkins parla di sprung rhythm che, «in poche parole, consiste nello scandire solo secondo gli accenti, senza tener conto del numero delle sillabe». La corretta esecuzione orale del testo è essenziale: «i miei versi – scrisse a Bridges –, non li devi leggere pigramente con gli occhi, ma come se la carta te li stesse declamando». Improbo, dunque, il compito del traduttore. «Certe poesie di Hopkins – scrive Papetti – sono perentorie e misteriose come ordini … la lettura si fa aggressiva, inquisitoria, e trapassa, tra mille ripensamenti e prove di voce, nella traduzione».

Importante è anche il concetto di inscape, conio che vale più o meno «paesaggio interiore». Per l’Oxford English Dictionary è «la qualità essenziale o individuale d’una cosa; l’unicità di una cosa osservata, d’una scena, d’un evento». A questa divina Gestalt insita negli anche minimi dettagli del mondo esterno si accede con la penetrazione dello sguardo. Ma per Hopkins «quel che tu guardi fissamente, sembra riguardarti fissamente» a sua volta. E così l’occhio, scrive Papetti, diventa «la soglia attraverso cui Hopkins patisce l’invasione estetica». L’inscape esterno penetra nel suo silenzio interiore e ne riemerge producendo «squilla martellanti, incantati e incantatorii fonosimbolismi». La poesia di Hopkins è, in fondo, un’incarnazione sonora dei muti inscapes di cui è composta l’infinita varietà del mondo.