ll cineasta Mike Hoolboom, già ospite dell’Efebo d’oro a Palermo, ripropone al festival Filmmaker di Milano alcuni suoi lavori che coniugano sperimentazione, autobiografia e documentario.
È uno dei cineasti sperimentali canadesi più significativi e a 60 anni ha girato un numero piuttosto elevato di cortometraggi e lungometraggi, oltre un centinaio. Nato nel 1959 a Toronto, Mike Hoolboom si è avvicinato al super 8 negli anni ’80, cominciando a realizzare film basati quasi sempre su materiale di repertorio, elaborandolo con grande originalità e con notevole abilità sul piano del montaggio, fino a rendere il found footage quasi indistinguibile dalle riprese originali.

Nel suo cinema l’approccio documentaristico si fonde con quello autobiografico, producendo un immaginario fortemente saturo in cui le immagini stratificate sono rafforzate dall’uso della voce fuori campo e da didascalie in sovrimpressione. Tutto ciò rende così ogni sua opera densa di associazioni visivo/verbali e di significati, con rimandi decisamente politici. Inoltre il fatto di avere un padre olandese e una madre indonesiana, ha sicuramente influito sulla sua cifra espressiva multiculturale.

Trent’anni fa, dopo aver scoperto di essere sieropositivo, è intervenuto un cambiamento radicale nella esistenza di Hoolboom, che ha avuto riflessi anche sulla sua estetica e sull’affrontare certi temi, come quello legato alla riflessione sul futuro (Imitations of Life, 2002) ma, soprattutto, mettendo al centro del suo lavoro il corpo. Un corpo biologico, metamorfico (la questione del gender), ma anche cinematico (nella sua relazione con la rappresentazione filmica e mediatica), sospeso tra percezione e memoria. Al corpo Hoolboom ha dedicato anche la masterclass dal titolo Throwing the Body, tenuta al CSC di Palermo lo scorso 18 ottobre. E a Palermo, dove lo abbiamo incontrato, Hoolboom il cineasta è stato ospite dell’Efebo d’oro, presentando alcuni suoi lavori recenti quali: Father Auditions (2019), Public Lighting (2015), From the Archives of the Red Cross (2017), Aftermath (2018): quest’ultimo – incentrato sulle figure di Fats Waller, Jackson Pollock, Janieta Eyre e Frida Kahlo – è un’opera di grande intensità poetica dove il punto di partenza biografico e l’analisi del loro processo creativo, è solo un pretesto per indagare i risvolti culturali, sociali, psicanalitici e antropologici legati ai quattro artisti.

Se da un lato il cinema di Hoolboom si ricollega alla tradizione dell’underground classico, con richiami all’omoerotismo (pensiamo al Kenneth Anger di Fireworks), con uno stile onirico, surrealista e visionario ricercando la granulosità della pellicola in bianco e nero, dall’altro – trovandosi perfettamente a suo agio nell’era dell’immagine digitale – prelevando immagini da spot pubblicitari, music video e film hollywoodiani, il regista esplora un’estetica opposta, glamour e seduttiva, attivando una riflessione critica sull’immaginario mediatico mainstream. Il found footage in Hoolboom, comunque, è sempre inteso come una porzione di passato che si riverbera sul presente.
Piuttosto restio a lasciare la sua Toronto, Hoolboom approfitta della trasferta italiana per presentare i suoi film anche al pubblico milanese, ospite del festival Filmmaker che si tiene dal 15 al 24 novembre.

Vorrei cominciare col chiederti se hai rapporti con il contesto del cinema sperimentale canadese che, ancora oggi, mi sembra molto vitale.
Molti artisti sono miei amici e con loro ci scambiamo opinioni senza risparmiarci critiche. Negli anni ’80 bisognava essere nello stesso posto per poter guardare il lavoro reciprocamente. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, è molto più facile. Nel mio palazzo vivono due importanti registi: Alexandra Getis e Jorge Lozano. Lei si muove nell’ambito artistico e produce opere che vengono esposte in mostre soprattutto in America Latina, mentre lui ha realizzato 150 film, molti davvero geniali, che vanno scoperti poiché non hanno circolato molto.

La tua filmografia è sconfinata, da cosa nasce questo bisogno di essere tanto prolifico?
Mi pongo sempre una domanda: perché continuare a fare film quando ce ne sono già tanti? Poi mi rispondo che filmare è un modo per metabolizzare conversazioni, incontri, idee. Quindi ogni volta che conosco qualcuno devo girare un film per fare tesoro di questo incontro. Tre anni di coabitazione con questi altri due cineasti, per esempio, ha messo in circolazione creatività in ciascuno di noi tre. Devo aggiungere che, con il passare degli anni pensavo sarebbe diminuita la mole dei miei film, mentre è aumentata. Per me ogni opera costituisce un work in progress, tanto è vero che, negli ultimi 6 anni, ho riguardato tutto quello che ho girato rimettendoci le mani ed eliminando alcune cose. Ciò che ho mostrato in passato non esiste più. Su Vimeo si possono vedere solo le ultime versioni e, molte di esse, anche in alta qualità. Credo molto nei beni comuni digitali.

Alcuni tuoi lavori come «Public Lighting» e «Imitations of Life», sono suddivisi in diverse parti: da cosa nasce l’esigenza di costruire lungometraggi costituiti da cortometraggi con una loro autonomia?
Immaginiamo di avere un amico che conosciamo da sempre e che vediamo nei momenti tragici e difficili ma anche in quelli di gioia; egli, insomma, ha molti differenti stati d’animo. Ma anche il corpo cambia, può perfino cambiare genere. Ora io mi pongo il problema di come far vedere tutto ciò in un film, poiché il cinema dovrebbe riflettere questa esistenza frammentaria. Più che di un autore singolo, bisognerebbe parlare di un autore collettivo, di una sorta di «coro», proprio come nella tragedia greca. In Public Lighting c’è una regista egiziana, Esma Moukhtar, che scrive un testo per annunciare sei diverse sue personalità. Lei le annuncia e il film le mostra, quindi lei diventa in qualche modo l’autrice del film.

Mi sembra molto interessante il modo in cui usi il «found footage», sempre all’interno di un discorso di critica e analisi dei mass media e della società. Insomma ne fai un utilizzo «politico», un po’ come il «détournement» di Guy Debord.
Mi approprio di film mainstream poiché ritengo che un film sia un luogo in cui le vecchie gerarchie e i vecchi gruppi sociali possano essere sovvertiti, trasformati; è uno spazio dell’immaginario in cui si può celebrare un altro tipo di sessualità, mostrando nuovi corpi: quelli che chiamiamo «vettori di appartenenza». I mediascape costituiscono ormai la nostra realtà e non sono luoghi semplicemente virtuali, ma luoghi che abitiamo concretamente. Come facciamo a cambiare la nostra vita reale se non possiamo cambiare le immagini? Come possiamo intervenire davvero sui cambiamenti climatici se non partendo dalle immagini che ci sensibilizzano a questo problema? Il fatto che Greta Thunberg abbia fatto il suo viaggio negli USA su una barca a vela anziché su un aereo è stato determinante dal punto di vista mediatico.

Il tuo interesse verso la critica ai media sfocia poi in lavori sulle icone della cultura pop, penso al tuo film «Hey Madonna».
C’è un momento nel video Vogue di Madonna dove lei fa dei movimenti di danza spezzati e il regista del clip, David Fincher, sfuma ritmicamente l’immagine in nero, mettendo Madonna in primo piano e il danzatore afroamericano sullo sfondo. Per me questo momento è molto significativo, poiché mostra la fragilità del corpo del ballerino, la sua appartenenza sociale e culturale, con una serie di riferimenti alla cultura queer e all’Aids. Insomma ciò che mi interessa, nell’inserire quasi integralmente questo clip all’interno del mio film, è la possibilità di rileggerlo politicamente, alla luce di certi problemi razziali, di identità, ecc.

Tuttavia utilizzi le immagini di repertorio anche in una prospettiva più autobiografica. In che modo si combinano tra loro?
Si, è vero, metto insieme due generi, biografia e found footage. In che modo si appartengono tra loro? Come si fa a dire che un’immagine che non abbiamo mai visto e vissuto ci possa davvero rappresentare? Come si fa a fare il ritratto di una persona basandosi su immagini che questa persona ha percepito senza averle viste attraverso i nostri occhi?
Eppure è possibile. I miei genitori hanno vissuto la seconda guerra mondiale quando erano piccoli e questo avvenimento traumatico ha cambiato per sempre la loro vita. Mia madre era indonesiana ed è cresciuta durante l’occupazione giapponese. La sua esperienza (così come quella di mio padre) è diventata centrale negli anni della mia formazione, pur non essendo mai stato in Indonesia. Ho vissuto dentro la realtà del loro passato e le loro esistenze sono diventate le lenti da cui guardare il mondo. Il mio corpo era costituito da quelle immagini, io stesso sono found footage. Non solo il digitale mi ha consentito di esplorare meglio le immagini di repertorio, di archivio, ma è stata un’esigenza emersa, un fatto culturale.

Il tuo cinema è molto parlato, senti la necessità di costruire, attraverso la parola, un livello narrativo per dare senso alle immagini.
Diciamo per creare plurimi significati. Mi piace molto l’espressione inglese «mother tongue» proprio perché la parola è femmina, e io uso questo linguaggio, oltre a rappresentarlo, per rendere omaggio a mia madre e al suo «corpo». E’ una questione femminile, anzi direi femminista.

Anche la relazione tra corpo fisico-biologico e rappresentazione mediatica è molto forte nei tuoi film. Qui a Palermo hai tenuto una masterclass proprio su questo tema. Puoi spiegarci come si è svolta?
Innanzitutto ho fatto un esercizio con gli studenti di cinema: mentre uno di loro veniva bendato, l’altro realizzava un film con suoni e tatto guidando poi il primo attraverso questo percorso. Ritengo che il nostro sistema educativo sia totalmente preordinato, totalmente incentrato sulla mente e non sul corpo. Io invece ho voglia di creare una situazione in cui l’ascolto è fatto con tutte le parti del corpo, per imparare a capire dove alberga la paura. Per fare questo c’è bisogno di instaurare un rapporto di fiducia con l’altro. Smartphone sempre più sofisticati ci aiuteranno nel futuro a realizzare meglio tutto ciò; è possibile anche che si arrivi al cinema neuronale, cioè a vedere direttamente col cervello, del resto ci stiamo trasformando in cyborg, e c’è poi chi prende farmaci per arrivare a percezioni alterate. Paul Preciado, autore-programmatore, si occupa proprio di questo genere di cose
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C’è un metodo particolarmente logico e razionale nell’associazione di immagini, simboli, citazioni o, al contrario, ti fai guidare dall’istinto, dalla logica del flusso?
Molti cineasti sono voraci, lavorano su un film per due o tre mesi senza sosta. Io invece lavoro con tempi lunghi, ogni giorno. Questo non significa che preparo il film, che lo pianifico, ma, quotidianamente, giro delle immagini, monto e produco suoni. Anche qui a Palermo sto filmando materiale per un nuovo film, ma se mi chiedi su cosa verterà ti rispondo che non lo so. Non so da che parte mi condurranno le immagini che raccolgo.

Un altro aspetto della tua estetica che mi interessa molto è la mescolanza che crei tra documentario e sperimentazione. Penso al tuo bellissimo «Mexico» (1992).
Io e i miei amici, di base, facciamo documentari, anche se – rispetto agli altri documentaristi – viviamo nel sottoscala. Ma è una nostra scelta; il problema è che un documentario di quelli che vengono trasmessi in tv deve essere strutturato in 3 atti e caratterizzato da personaggi. Noi rifiutiamo questi canoni perché non vogliamo essere imprigionati in un format e, quindi, cerchiamo di fare altro. Soprattutto, come dicevo prima, non pianifichiamo nulla, ma lavoriamo sul nostro inconscio, dunque, inconsapevolmente.

Possiamo considerare la tua pratica quotidiana del filmare come il cinema diaristico di Mekas?
Non direi. Il cinema di Mekas è un «cuore aperto», un cinema nomade, di comunità, di migrazione, oltre ad essere frenetico, veloce. Io invece vivo nella città dove sono nato, ho paura della folla, degli stranieri. Non ho il cuore di Mekas, non amo viaggiare, mi piace lavorare a casa e lasciarla il meno possibile, circondato da poche persone.

Ti potremmo definire un epigono del cinema surrealista? Sia per le evidenti citazioni nei tuoi film, sia per la dimensione onirica e fortemente psicanalitica che ricrei?
Amo molto il cinema dei surrealisti poiché la loro forza è che non puoi spiegare le loro opere, che molte domande non hanno risposta. La risposta liquida la domanda, mentre le buone domande generano sempre nuove risposte.
Quanto è cambiato il tuo cinema (e il tuo sguardo sulla realtà) da quando hai scoperto di essere sieropositivo?
È cambiato tutto nella mia vita. Molte persone giovani vicino a me sono morte senza essere curate. In quel periodo ho provato rabbia, confusione, paura. Mi sono battuto, attraverso azioni politiche mirate, per avere maggiori cure ma anche più informazioni sulla malattia, poiché c’era molta disinformazione: si sono create leggende riguardo al come stare in compagnia di qualcuno che fosse sieropositivo. A parte tutto, c’era bisogno di creare un nuovo modo di fare cinema per raccontare la malattia, di sviluppare un nuovo tipo di sensibilità.

Sull’AIDS ruotano tuoi film come «Eternity» (1996), «Boy’s Life» (1996-2018) o «Frank’s Cock».

Per me quest’ultimo è una storia d’amore, tradizionale, drammatica, poiché alla fine Frank muore, anche se l’amore è durato anche dopo la sua morte. «Positiv» (1998) invece è un vero e proprio film-confessione sulla malattia. Tra l’altro la sua struttura a «split screen» fa venire in mente la possibilità di proporre il film in una installazione a 4 canali.
Si, ho mostrato il mio lavoro sotto forma di installazione in gallerie e musei. Anche se non mi piace l’arte contemporanea, non la capisco. Preferisco i libri e i film, le arti visive non mi interessano.

I tuoi film vengono finanziati dallo stato canadese?
Ci sono fondi dello stato, della provincia e anche della città di Toronto. Qualche volta mi capita di venderli alle televisioni, e se ARTE acquista un film posso campare un anno intero senza lavorare.
Vivo una vita molto frugale, ma il mio lavoro di filmmaker non mi rende ricco: cinque anni fa ho ricominciato a studiare all’università perché ho scoperto che mi davano dei soldi…

Oggi oltre a utilizzare la videocamera continui a girare anche alcune sequenze in super 8 come alle origini?
Prima era facile trovare la pellicola, poi, a partire dagli anni ’90, i laboratori di pellicola sono falliti e, i pochi rimasti, erano costosi e lavoravano male. Mi sembra tanto più comodo usare la camera digitale.

Quanto è cambiato il tuo approccio alle immagini con il passaggio dall’analogico al digitale?
Analogico per me significa avere poche immagini e accumularne di nuove, passo dopo passo. Mentre digitale vuol dire avere un sacco di immagini e dover scegliere. L’analogico è come la pittura, devi aggiungere; il digitale è come la scultura, devi togliere.

Cos’è in definitiva il cinema per te?
Nel corso della mia vita ho visto molti modi di fare e intendere il cinema che sono nati e sono scomparsi. Ho cominciato in modo casalingo con il Super 8 e oggi vivo nell’epoca di internet dove ciascuno di noi ha un suo cinema «fatto in casa». Direi che questo è il momento migliore per fare film poiché vi sono evidenti urgenze politiche. In questo crollo del neocapitalismo liberale ci servono nuove forme di comunità per stare insieme, nuovi tipi di solitudine, che il cinema indipendente rende possibile. I film sono capsule del tempo, come delle tombe, come qualcosa che è finito e a cui dobbiamo portare rispetto e rendere omaggio, poiché ci ricorda il nostro passaggio su questo pianeta. Il cinema è un memento mori.