Sono passati due anni da quando il presidente cinese Xi Jinping ha riaffermato il controllo di Pechino su Hong Kong nel corso delle pompose celebrazioni per il 20esimo anniversario del ritorno dell’ex colonia britannica alla mainland. Di quel solenne primo luglio 2017 non è rimasto che il clima di tensione e la massiccia presenza di polizia antisommossa sguinzagliata a difesa degli uffici governativi e delle principali arterie cittadine.

Per la prima volta nella storia della regione amministrativa speciale, la cerimonia si è tenuta al coperto anziché sul fotogenico lungomare. Colpa del maltempo ma soprattutto delle tensioni tra polizia e manifestanti anti-estradizione, andate in scena a ravvicinata distanza dal Convention and Exhibition Centre, dove l’establishment locale ha assistito da remoto al rituale alzabandiera.

Secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine, nelle prime ore della mattina tredici agenti sono finiti in ospedale dopo essere stati colpiti con dei mattoni e un liquido irritante che ne ha compromesso vista e respirazione. In serata, al culmine della tensione, alcuni dimostranti, equipaggiati di elmetti e maschere antigas, hanno sfondato le vetrate del Consiglio Legislativo con un carrello di metallo e pali d’acciaio, facendo irruzione nell’edificio: gli agenti hanno risposto con fumogeni e spray al peperoncino.

Se l’emergere di una componente radicalizzata è il vero tratto distintivo del movimento di disobbedienza civile nato dalle ceneri degli Ombrelli, c’è un’Hong Kong coscienziosa che continua a prevalere nonostante la rabbia.

Adue strade di distanza, decine di migliaia di manifestanti hanno partecipato pacificamente all’annuale marcia pro-democrazia guidata dal Civil Human Rights Front, l’organizzazione che – in assenza di una leadership vera e propria – si è fatta promotrice del movimento anti-estradizione e delle sue richieste. La polizia li ha dispersi con la forza: oltre 50 i feriti.

Sono passate più di due settimane da quando il governo di Carrie Lam ha promesso di sospendere in via definitiva la controversa legge che permetterebbe a Hong Kong di consegnare i sospetti a Pechino anche in assenza di un formale accordo di estradizione. Ma il malcontento popolare minaccia di non estinguersi fintanto che la proposta non venga ritirata formalmente e il governo non «assolva» i manifestanti arrestati negli scorsi giorni e sottoposti alle accuse di «sommossa».

Avviando le celebrazioni, ieri mattina, la chief executive ha promesso un approccio «più aperto e accomodante» nei confronti dei partiti d’opposizione e soprattutto dei giovani, in prima linea oggi così come durante le proteste per il suffragio universale nel 2014. Rassicurazioni che difficilmente basteranno a ricucire lo strappo.

Mentre le frizioni con Pechino rimangono sottotraccia, ormai il risentimento dei dimostranti è ampiamente rivolto contro l’amministrazione locale, ritenuta non solo la vera sostenitrice della temuta legge, ma la principale responsabile dell’erosione delle libertà promesse alla vigilia dell’handover con l’introduzione del modello «un paese due sistemi».

Secondo un’indagine della University of Hong Kong, il grado di approvazione di Lam è a un nuovo minimo storico, 23%. Un sentimento che, se condiviso sulla terraferma, non è escluso sfoci in una destituzione riparatrice. O in un intervento diretto delle autorità centrali.

Stando alla Basic Law, la minicostituzione di Hong Kong, l’esercito cinese è titolato a intervenire in caso di «disordini e minacce all’unità nazionale o la sicurezza, se sono fuori dal controllo del governo» locale.