L’indizione di scioperi e nuove manifestazioni dimostra la volonterosa tenacia di gran parte della popolazione di Hong Kong di fronte al corso della storia.

La sensazione è che per molti dei cittadini dell’ex colonia britannica, questo anno di proteste sia visto come l’ultima possibilità per ribadire la volontà di mantenere lo status particolare della città. Il 2047 è lontano, ma l’opera di avvicinamento a Pechino procede inesorabile. La proposta di Carrie Lam di una legge sull’estradizione, probabilmente frutto della sua ambizione più che di indicazioni cinesi, ha finito per rappresentare un destino che si fa via via più inesorabile.

E dato che la Cina oggi non è più quella del 1997, la popolazione di Hong Kong ha espresso come ha potuto la propria volontà di non diventare, nel prossimo futuro, una regione cinese. Il problema dei manifestanti è che dopo le proteste vittoriose, perché la legge è stata ritirata e affossata, serve una proposta su cui confrontarsi con Pechino per possibili mediazioni.

Le dimissioni di Carrie Lam, richieste dalle ultime manifestazioni, costituiscono un altro obiettivo tattico che però non è destinato a cambiare la situazione. Al posto di Lam, nel caso fosse finita la sua carriera politica, arriverà un altro funzionario filo cinese, perché il sistema politico dell’isola è blindato. Il controllo della Cina sulla città è ormai consolidato. Analogamente non hanno respiro politico, per quanto giuste e utili a stigmatizzare i rapporti di forza, le manifestazioni contro la violenza della polizia. Nel 2014 la cosiddetta «rivoluzione degli ombrelli», che rivoluzione non fu, si proponeva come obiettivo quello del suffragio universale. Potrebbe essere questa una carta politica nelle mani dei manifestanti, per provare a riattivare una sorta di confronto di natura politica da parte di Pechino.

La Cina a fronte di tutto questo, è intervenuta ufficialmente, come ci si aspettava: senza toni troppo minacciosi ha espresso solidarietà al governo locale e più di tutti alla polizia, nell’occhio del ciclone per pratiche violente.

La Cina sa bene che Hong Kong è solo un esempio di come la propria influenza nel mondo potrebbe palesarsi in futuro; per questo la dirigenza si sta muovendo in modo cauto, aspettando forse che l’inerzia delle proteste prima o poi diminuisca e approfittando della mancanza di una vera e propria proposta politica da parte di chi protesta.

Ma Pechino farà bene ad abituarsi: la propria concezione di influenza a cerchi concentrici è sempre stata la forza o il punto debole dell’approccio internazionale del paese, perfino in epoca imperiale. E non è detto che i problemi esterni siano quelli da cui dipende la tenuta «interna». Se il centro è forte, regna l’ordine. Se il centro è debole, «le montagne sono alte, l’imperatore è lontano».