Quella di ieri è stata una giornata di tensione a Hong Kong e non a causa delle manifestazioni e degli scontri con la polizia, come accaduto in tante giornate precedenti: le autorità dell’ex colonia britannica hanno infatti arrestato alcuni tra gli attivisti più in vista dei movimenti protagonisti delle proteste che ormai da quasi quattro mesi scuotono la città. Due di loro, probabilmente i più noti anche a livello internazionale, Joshua Wong e Agnes Chow sono già stati liberati con la cauzione.

NON BASTASSERO GLI ARRESTI, l’agenzia Reuters ha svelato come già quest’estate la governatrice della città Carrie Lam avesse sottoposto a Pechino un piano per negoziare con i manifestanti a partire dalla concessione circa il ritiro definitivo della legge sull’estradizione che, nominalmente, ha dato inizio a tutta l’ondata di manifestazioni, proponendo di accettare anche la richiesta per un’indagine sulle violenze della polizia.

Stando a quanto riportato, Pechino non avrebbe accettato la mediazione. A tutto questo si aggiunge un altro fattore: la manifestazione prevista per oggi non è stata autorizzata e potrebbe saltare, benché non sia chiaro quale sarà l’atteggiamento delle diverse organizzazioni che si occupano delle contestazioni. Da Hong Kong – infatti – alcuni attivisti spiegano che in realtà è ancora in forse. Nessuno sembra sapere cosa potrebbe succedere.

Per quanto riguarda gli arresti, oltre a Wong e Chow è stato arrestato anche l’attivista per l’indipendenza Andy Chan. Joshua Wong, leader studentesco già noto per le proteste del 2014 (è uscito di carcere proprio alcuni giorni dopo l’inizio delle nuove manifestazioni), è il fondatore del movimento politico giovanile Demosisto, proprio come Agnes Chow.

Per entrambi le accuse si riferiscono alla partecipazione alla manifestazione non autorizzata del 21 giugno e per incitamento alla protesta; Wong è indagato anche per aver organizzato la manifestazione. In termini generali – come riportato da Agenzia Nova – «la polizia ha riferito di aver arrestato in tutto 29 uomini e sette donne, incluso un 12enne, per diverse tipologie di reato, dall’assembramento non autorizzato al possesso di armi offensive, sino all’aggressione a pubblico ufficiale».

L’AMMINISTRAZIONE di Hong Kong ha anche diffuso una nota esprimendo una «ferma condanna» delle proteste e avvertendo che «l’aumento degli atti illegali e violenti da parte dei manifestanti illegali non è solamente oltraggioso, ma ha anche spinto Hong Kong sull’orlo di una situazione molto pericolosa».
Ieri, inoltre, la Reuters ha pubblicato un articolo che getta una nuova luce tanto sulla posizione di Pechino su Hong Kong, quanto sulle complicazioni che eventuali fasi di trattativa tra manifestanti e governo dovranno affrontare.

A quanto si legge sul sito dell’agenzia, «all’inizio di questa estate, Carrie Lam», chief executive di Hong Kong, ha presentato un rapporto a Pechino nel quale valutava «le cinque richieste chiave dei manifestanti», proponendo di ritirare la le controversa legge sull’estradizione nel tentativo di «disinnescare la crescente crisi politica» nella città.

PECHINO AVREBBE RIFIUTATO, ordinando a Lam di non accettare alcuna delle possibili mediazioni fornite dai manifestanti, secondo quanto la Reuters avrebbe appreso da almeno tre fonti informate sui fatti. Lam avrebbe fornito un’analisi della situazione a Shenzhen, durante un incontro con i funzionari cinesi e a quanto pare non ci sarebbe stato solo il ritiro della legge come possibilità: Lam si sarebbe detta disponibile anche ad avviare un’indagine trasparente e super partes sulle violenza di piazza.

Anche in questo caso Pechino avrebbe negato la possibilità di procedere. Questo dimostra due cose: che quelli erano i due punti sui quali effettivamente si pensava che si sarebbe potuto raggiungere un compromesso e che Pechino – nonostante non abbia ancora deciso azioni di forza – non ha alcuna intenzione di riconoscere ai manifestanti alcun ruolo di mediazione con il governatore centrale.