Alla fine degli anni cinquanta, nel pieno della crisi del quadro da cavalletto, la pittura subisce una metamorfosi: le tele diventano aggettanti e si protendono verso l’esterno, verso lo spazio tridimensionale della realtà, lo stesso occupato dallo spettatore. Sospesi tra pittura e scultura, questi oggetti segnano una doppia trasgressione delle proprietà specifiche del medium della pittura astratta secondo la lettura modernista: la sua delimitazione e la sua bidimensionalità. L’estoflessione è così una deformazione, un’escrescenza, quasi una malattia della planeità.
Curiosamente, almeno sin dai Gobbi di Burri, l’estroflessione fiorisce in Italia, uno dei paesi europei meno colpiti dal verbo modernista. Sbaglieremmo tuttavia a circoscriverla al nostro dopoguerra, se pensiamo alle shaped canvas di Frank Stella, su cui Michael Fried ha elaborato la prima riflessione critica compiuta. Malgrado le intenzioni del critico, questi dipinti hanno contribuito all’elaborazione del minimalismo nonché al passaggio dalla pittura alla scultura astratta, agli «oggetti specifici» (Donald Judd) che invadono lo spazio espositivo e si aprono a quella che Fried denominò teatralità.
Un’altra strada era possibile, quella, europea, dell’arte concreta, a partire dal manifesto di Theo Van Doesburg, elaborato a Parigi nell’aprile 1930. L’opera d’arte deve essere di una chiarezza assoluta, non ricorrere ad alcuna espressione individuale, ad alcun sentimento, ad alcun simbolismo, ed essere completamente conformata nella mente prima di essere eseguita. Sarà concreta e non astratta «perché niente è più concreto, più reale di una linea, di un colore, di una superficie»; «la costruzione di un quadro, così come i suoi elementi, devono essere semplici e visualmente verificabili», con una struttura deduttiva regolata da rapporti logici. Nel 1936 l’arte concreta trovò nuova linfa a Zurigo grazie a Max Bill. Sopravvive fino ai nostri giorni nella pratica di alcuni artisti che continuano a innovare la pittura astratta, come John Armleder e Olivier Mosset.
Una mostra al Centre Georges Pompidou (fino al 14 settembre) ha portato la mia attenzione sul lavoro di un altro svizzero, Gottfried Honegger, artista quanto collezionista, alla testa, assieme a Sybil Albers, della fondazione Espace de l’Art Concret a Mouans-Sartoux, vicino Cannes, aperta nel 1990, pochi anni dopo l’inaugurazione del Museum Haus Konstruktiv a Zurigo nel 1986.
Alla fine degli anni cinquanta Honegger si trasferisce a New York (1958-1961) dove, per due anni, realizza esclusivamente monocromi rossi, un colore acrilico steso su più strati, con degli elementi geometrici che si staccano leggermente dalla superficie. I Tableaux-reliefs erano nati. Da allora Honegger preferirà le forme dai tagli netti e dai cromatismi vivaci alla Ellsworth Kelly, ripetute in modo identico come se fossero dei pattern distinti solo dal colore. Da allora preferirà il monocromo, rendendo coerente il successivo passaggio alla scultura. Il rosso acceso corrispondeva bene all’impatto con la metropoli (lontana dalla sua Zurigo a misura d’uomo), alla dimensione stimolante quanto aggressiva che lo affascinava e da cui bisognava allo stesso tempo difendersi.
A New York familiarizza inoltre con le grandi dimensioni: vive per la prima volta al ventitreesimo piano, in un complesso di quattromila persone, la metà della popolazione di Mouans-Sartoux. Vede il suo amico Sam Francis lavorare su tele enormi, mentre in Europa l’astrazione era circoscritta a superfici ridotte, come se soltanto queste permettessero agli artisti di tenere sotto controllo la composizione e i suoi effetti. Visita l’atelier al Bowery di Mark Rothko, uno spazio di trecento metri: le dimensioni, ricorda Honegger, di una sala da concerto europea. Fu lo stesso Rothko a consigliargli di modificare la professione indicata sul passaporto: non più graphic designer ma artista.
Tornato in Europa, Honegger si stabilisce a Parigi e si lega al critico Michel Seuphor. L’aggressività newyorchese si stempererà nella délicatesse dell’Ecole de Paris, nella joie de vivre matissiana, nella malinconia della storia europea e della flânerie, ma anche nel gusto surrealista per l’aleatorio. Questo gli permette di sbarazzarsi definitivamente del determinismo dei colleghi zurighesi, eredi di un calvinismo protestante che pensava di poter cambiare il mondo imponendo un ordine geometrico o matematico con la stessa facilità con cui si risolve un’addizione.
Sin dal 1961 Honegger distribuisce gli elementi sulla tela a caso, come in un collage di Jean Arp, dimostrando così i rapporti tra costruttivismo e dada. Influenzato dalla lettura Le hasard et la nécessité di Jacques Monod, compierà presto degli esperimenti con il computer. Honegger è uno dei primi pittori astratti a servirsi della tecnologia informatica, affidando la composizione delle sue opere agli algoritmi. Che il caso sia o meno tecnologicamente determinato, poco cambia: la superficie della tela non funziona più come la finestra albertiana ma come un struttura tabulare, come una scacchiera.
Honegger non ha dubbi: è questa la strada da seguire. Più le costrizioni si moltiplicano, più gli elementi si riducono a una geometria di figure semplici (quadrati, triangoli, cerchi), più s’incentiva la sua libertà compositiva. La pittura dovrà abbandonare la cornice dorata e integrarsi nello spazio; dovrà abbandonare la tela e servirsi di materiali industriali come il metallo; dovrà abbandonare la sua autonomia e purezza per fondersi con l’architettura e l’industrial design; dovrà abbandonare l’intervento dell’io, vissuto ormai come un ingombro, un elemento espressivo di troppo da tenere sotto controllo.
In linea con i principi dell’arte concreta, le sue composizioni ricorrono a principi fissi e comprensibili, in cui ogni dettaglio sarà decisivo. È il caso dell’elemento in aggetto che fa della superficie pittorica un’estroflessione e costituisce la base dei suoi Tableaux-reliefs ora in mostra a Parigi. Questo elemento ha tre funzioni principali: genera volume, proietta un’ombra e crea una gradazione cromatica. Se il dipinto resta monocromo, l’ombra proiettata lo anima, poiché cambia incessantemente con l’incidenza della luce e gli spostamenti dell’osservatore.
L’effetto è abilmente dosato nella serie di sculture di metallo dipinto (Pliages), le cui pieghe sembrano aprirsi e chiudersi attorno alla struttura circolare della struttura man mano che gli giriamo attorno. Installate all’altezza dello sguardo, sono ravvicinate in modo da rendere efficace la loro dinamica spaziale. Ora, il senso dei Pliages non si esaurisce in un’installazione oculata di sculture.
Sin da giovane Honegger subisce una doppia influenza: da parte materna, l’Engadina, terra cara a Giacometti. Qui ammira la bellezza della cultura rurale, le abitazioni in cui ogni dettaglio è curato e armonizzato con la natura. Da parte paterna, le abitazioni proletarie di Zurigo, funzionali ma prive di ogni senso estetico. Spetterà all’arte ristabilire una società estetica – un’idea che Honegger non ha mai abbandonato come dimostrano le sue commissioni pubbliche, tra cui il murale alla stazione della metro A Anagnina di Roma (1997).
L’attività artistica non consiste in una futile alternativa tra un quadrato o un cerchio, un rosso o un giallo, un rilievo o una scultura. Come Mondrian, Honegger crede nella missione culturale dell’arte, nella responsabilità dell’artista, nel rapporto diretto tra pittura e società. La crisi non è altro che una perdita d’equilibrio, e il bilanciamento tra diversi elementi proprio a un’opera d’arte corrisponderà allo stabilirsi di un nuovo patto sociale. Le estroflessioni – un’operazione che ha permesso agli artisti di declinare l’astrazione pittorica in direzioni prima inesplorate – incarnano questo pensiero. Rompere l’isolamento della superficie bidimensionale, esplorare la natura extra moenia della pittura vuol dire prendere coscienza di vivere in una società, e credere che sia possibile modificarla. Se questo tentativo spetta solo all’uomo, non si potrà far a meno degli artisti.