La «mobilitazione totale» lanciata per una settimana dall’Alleanza di opposizione alla dittatura per protestare contro l’insediamento di Juan Orlando Hernández – che avverrà oggi in una capitale militarizzata all’inverosimile – almeno un obiettivo lo ha raggiunto: dimostrare a Joh, come è chiamato il presidente illegittimo, che non gli sarà per nulla facile governare su un popolo che non lo riconosce come tale.

DAL COLPO DI STATO del 2009 contro Manuel Zelaya, per ben due volte le forze impegnate in difesa della democrazia hanno vinto nelle urne – il 24 novembre del 2013 con Xiomara Castro, la moglie del presidente deposto, e il 26 novembre scorso con il presentatore televisivo Salvador Nasralla – ed entrambe le volte l’oligarchia honduregna ha rovesciato il risultato elettorale, imponendo e poi mantenendo al potere il proprio candidato.

E anche in questo caso con la complicità dell’Organizzazione degli stati americani, il cui segretario generale Luis Almagro, dopo aver invitato – sulla base delle esplicite denunce riportate dalla missione degli osservatori – a «una nuova convocazione a elezioni generali», ha poi finito per allinearsi agli Stati uniti (tra i primi a felicitarsi con il presidente), esprimendo in un comunicato la propria disponibilità a collaborare con le autorità elette.

SI PUÒ ALLORA COMPRENDERE bene come al popolo non sia restato molto altro da fare che scendere in strada per «rovesciare il dittatore», malgrado la violenta repressione scatenata dall’esercito e dalla polizia militare fin dal primo giorno di quella che è stata chiamata «Operación Fuera Joh».

E se l’elenco delle vittime non fa che allungarsi (oltre 30 le persone uccise, più di 200 i feriti e addirittura più di mille i manifestanti arrestati), ciò non basta a scuotere la comunità internazionale, incapace di andare oltre gli appelli a garantire il diritto alla libertà di manifestare e ad astenersi dall’impiego della polizia militare e delle forze armate contro le proteste dell’opposizione, come esplicitamente richiesto dalla portavoce dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i diritti umani Elizabeth Throssell.

APPELLI a cui le forze di sicurezza dell’Honduras – che pure riconosce nella propria Costituzione il diritto all’insurrezione popolare – hanno risposto con un documento in cui rivendicano, dinanzi all’annuncio di blocchi stradali e di occupazioni degli areoporti internazionali (queste ultime mirate a impedire l’arrivo degli invitati alla cerimonia di insediamento), la responsabilità di «mantenere l’ordine e di garantire il diritto costituzionale alla libera circolazione», essendo questo più importante per il regime di Joh che il diritto alla vita.

IN QUESTO QUADRO DI VIOLENZA, mentre ha suscitato qualche perplessità la scelta dei 30 deputati del partito di opposizione Libre di prendere parte – pur tra le proteste – al giuramento del nuovo e altrettanto illegittimo Congresso (con ciò che questo comporta in termini di salario e di privilegi), la possibilità di un dialogo nazionale appare sempre più remota, non avendo il governo nessuna intenzione di accettare le condizioni poste dall’opposizione: che, cioè, il dialogo si svolga alla presenza di mediatori internazionali con poteri vincolanti (Nasralla ha indicato il Premio Nobel Rigoberta Menchú, il giudice spagnolo Baltasar Garzón e l’ex presidente uruguayano José Mujica), che ponga al centro il tema della frode elettorale e che – ma il tempo è ormai scaduto – inizi prima dell’insediamento di Joh.

Perché, come ha avvertito Manuel Zelaya, a partire da quel momento, «sarà il popolo a sollevarsi»: «Non sopporteremo all’infinito – ha detto -; il popolo ha il diritto legale all’insurrezione, e a mantenerla fino alla caduta del dittatore».