Sono da oltre 15 giorni in sciopero della fame gli indignados dell’Honduras. Chiedono le dimissioni del presidente Juan Hernandez e la fine dell’impunità. Intanto, continuano le marce delle torce, sempre più partecipate. I manifestanti chiedono l’istituzione di una Commissione antimafia e la destituzione immediata dei vertici della magistratura, accusati di connivenza con il potere. Lunedì gli indignados hanno diffuso un comunicato in cui diffidano altri a negoziare al posto loro con le autorità e funzionari Onu, che resteranno nel paese fino al 10 luglio. Di fronte alla pressione della piazza, il presidente aveva infatti invitato al dialogo, ma i manifestanti respingono la proposta e chiedono cambiamenti di sostanza.

Il quarto punto del loro comunicato invita «la società honduregna indignata a formare un coordinamento con delegati di tutti i dipartimenti del paese e anche oltrefrontiera». Concludono gli indignados: «Abbiamo deciso di mettere in gioco la nostra vita per questa causa, la dittatura istaurata da Juan Orlando Hernandez ha tolgo la vita a oltre 3.000 cittadini in meno di due anni di governo. Non smetteremo finché non avrà pagato». I giovani sono accampati di fronte al palazzo presidenziale, nella capitale Tegucigalpa e chiedono alla delegazione Onu di redigere un rapporto che permetta l’intervento di una commissione d’inchiesta sul grande scandalo per corruzione che interessa i più alti vertici del governo e che è iniziato con la scoperta di un gigantesco ammanco nel bilancio dell’Istituto per la sicurezza sociale.

La punta dell’iceberg di una crisi politica non più controllabile e che parte da lontano: dal golpe istituzionale contro l’allora presidente Manuel Zelaya, messo in atto con la complicità degli Usa sei anni fa. Il pur moderato Zelaya aveva «osato» volgersi alle nuove alleanze solidali dell’America latina, dirette da Cuba e Venezuela. Ma, da allora, movimenti e sinistra di sono riorganizzate e ora chiedono un cambio di paradigma.