A Trento in questi giorni si tengono incontri e seminari promossi dal nodo trentino della rete In Difesa Di per costruire un progetto di Shelter cities, o città rifugio, per i difensori di diritti umani. Il tema è urgente: secondo le organizzazioni per i diritti umani – da Frontline Defenders a Global Witness, ma anche l’Onu – è in corso un attacco senza precedenti a coloro che difendono i diritti nel mondo. Negli ultimi due anni sono stati in media circa 200 le attiviste e gli attivisti morti ammazzati. In America latina le cifre più importanti, connesse a estrattivismo e ipersfruttamento delle risorse.
L’Italia ha recepito nel 2017 le linee direttive dell’Unione europea in materia. Come Spagna, Irlanda e Olanda, che da tempo hanno attivato speciali programmi di protezione.

IN ATTESA DI STRATEGIE più definite, giocano d’anticipo i territori: il Trentino ha approvato due risoluzioni, una provinciale, decaduta con le recenti elezioni. E se il leghista Maurizio Fugatti, neoeletto presidente della Provincia di Trento, come primo atto mette in mezzo a una strada 20 richiedenti asilo appena accolti, c’è chi si interroga invece su come aiutare chi difende i diritti nel mondo.

 

Nohemi Pérez Borjas

 

 

LA HONDUREÑA Nohemi Pérez Borjas è una di loro. Attivista del Comitato famigliari imprigionati e dispersi in Honduras, è ospite da cinque mesi del programma di protezione Cear Euskadi, appoggiato dal governo basco. Dopo aver perso un fratello negli anni ’80 nelle operazioni di Sicurezza nazionale degli Usa, Nohemi accompagna le vittime della violenza di stato. Dal 2009, anno del golpe militare che ha deposto l’allora presidente Zelaya, la sua vita è diventata difficile: «Mi hanno picchiata, inseguita, minacciata. I miei nervi hanno cominciato a cedere. Era giunto il momento di allontanarmi». La incontriamo a Trento e dopo poche parole si commuove. Una delle sue figlie è in ospedale per le conseguenze dei gas lacrimogeni usati durante una manifestazione nella capitale Tegucigalpa: «Non so come sta, l’hanno portata in una clinica privata perché in quelle pubbliche, come diciamo noi, si va solo per morire».

NOHEMI RACCONTA dell’Honduras: «Dei 9 milioni di abitanti l’85% è povero. In Europa non se ne parla. Gli aiuti vanno ai governi, che sono corrotti e levano risorse per il popolo. Nel 2016 ci hanno rubato anche la democrazia, con la frode elettorale che ha mandato al potere Juan Orlando Hernández». Lo sfidante Nasralla non ce l’ha fatta per poco, e il sospetto di brogli ha riversato migliaia di cittadini nelle strade. «Dagli anni ’80 l’Honduras soffre una dimensione di dolore collettivo – dice Nohemi -, con tassi enormi di disoccupazione. Per questo la gente se ne va».

PROPRIO DALL’’HONDURAS è partita la carovana migrante che da settimane accende le speranze di tanti popoli oppressi e mette in crisi il Messico, cui Trump minaccia il taglio dei flussi di denaro: «Conosco molta gente che si è unita alla carovana», racconta Nohemi.
Le chiediamo come sia stato andarsene: «Arrivare in un posto che non conosci crea ansie. Era la mia prima volta in Europa. Il programma basco mi ha aiutato. È stato come un abbraccio fraterno. Soprattutto, una volta arrivata a Bilbao non ho dovuto smettere di lavorare: abbiamo costruito un’agenda politica comune e sono seguita da una psicologa. Poter testimoniare le violazioni quotidiane che accadono in Honduras è parte del mio attivismo».

DOPO L’OMICIDIO DI BERTA CACERES – l’attivista indigena uccisa per la sua battaglia in difesa del territorio ancestrale della popolazione Lenca, che Nohemi conosceva bene – la questione dell’estrattivismo è diventata centrale sul piano internazionale, ma non ha scalfito l’impunità interna del Paese: «Berta era una leader – continua Nohemi – e si è scontrata con le multinazionali che si stanno mangiando l’Honduras. Per ora non abbiamo ancora nessun colpevole certo».

Parliamo con lei anche di quanto sia complicato essere donna in Honduras e avere visibilità politica: «Noi donne siamo doppiamente criminalizzate: in una dimensione di ipermachismo, ci vogliono in casa e non in politica. Una donna forte e femminista fa paura. Affrontiamo a viso aperto il patriarcato con risultati concreti, anche perché le donne in questo momento hanno maggiori capacità di costruire pace e alternative economiche. C’è un uso terribile della violenza sessuale, ma non molliamo».

LE CHIEDIAMO INFINE come sarà il suo ritorno a casa, fra un paio di settimane: «Non facile: da una parte sono felice perché riabbraccio i miei, ma la macchina del fango nel frattempo avrà lavorato contro di me. Dovrò ricominciare a cambiare ogni due giorni i miei tragitti verso l’ufficio e la casa. Ma la prima cosa sarà sedermi con la gente del mio collettivo. In gennaio il governo basco verrà in Honduras per degli incontri. Testimonieranno come è ridotto il mio popolo. Sono necessari programmi così, perché abbiamo bisogno di poter lavorare con serenità, e anche di riposare. Siamo donne e uomini che girano con un peso enorme sulle spalle. Poggiare questa valigia emozionale per qualche mese è essenziale per poi tornare utili alla causa. È il nostro lavoro della vita, per la vita».