Due città, due governi alla caccia di risultati: Homs e Ramadi, vittime di conflitti diventati una guerra unica, sono il teatro del tentato riscatto di Damasco e Baghdad e possibile modello del futuro di Siria e Iraq.

Ieri la “capitale della rivoluzione”, Homs, ha assistito all’evacuazione degli ultimi miliziani delle opposizioni asserragliati nel quartiere di Waer. 320 uomini armati, con 400 familiari, sono saliti a bordo di 15 bus con i vetri coperti e hanno abbandonato la città dopo l’accordo con il governo Assad: ritiro e rientro della polizia di Damasco in cambio di amnistia, liberazione di 35 prigionieri, fine dell’assedio.

Le truppe governative hanno permesso una ritirata sicura verso le province nord di Idlib e Hama. Tra i miliziani molti membri di al-Nusra, gruppo qaedista che ha sostituito sul campo di battaglia le opposizioni moderate, contrario alla tregua ma costretto all’uscita dalla città.

I gruppi moderati che invece hanno accettato i termini dell’accordo potranno restare ad Homs, disarmati, poche migliaia di rappresentanti di quelle opposizioni che avevano fatto di Homs la roccaforte anti-governativa. Ora la città nord orientale – oggetto di un’ampia controffensiva da parte di Damasco, sostenuto dai raid russi – torna in mano al governo, mentre Onu e Croce Rossa fanno da supervisori e scortano gli autobus verso nord.

Per Damasco è una vittoria significativa: dopo aver ripreso la Città Vecchia di Homs un anno e mezzo fa con un accordo simile che ha portato al ritiro di 2mila combattenti, vede cadere il bastione delle opposizioni con il negoziato. Uno strumento usato anche in altre aree: i cessate il fuoco locali, pubblicizzati dall’inviato Onu de Mistura senza grossi risultati, sono ad oggi il più concreto risultato raggiunto dal dialogo tra governo e opposizioni, senza grosse interferenze da parte di Stati esteri.

Quello di Homs è però anche la dimostrazione del fallimento delle opposizioni moderate, incapaci di far cadere Assad. Dimostrano lo stallo in visione e strategia di quei gruppi moderati che hanno perso la bussola nel caos siriano e la cercano disperati a Riyadh. Ieri mentre i ribelli lasciavano Homs, in Arabia saudita si teneva la prima sessione della conferenza organizzata dai sauditi per riunire sotto un unico ombrello le opposizioni ad Assad, in vista del negoziato di gennaio.

Nelle stesse ore proseguiva la controffensiva del governo di Baghdad sulla città di Ramadi, comunità tanto strategica da poter anticipare il futuro dell’Iraq: unità o frammentazione. Tutto dipenderà dal ruolo delle milizie sciite e dalla capacità del premier al-Abadi – dopo le rappresaglie di Tikrit – a coinvolgere effettivamente la comunità sunnita, che oggi trema. Indecisa se preferire le brutalità degli islamisti o la rappresaglia sciita.

Il 60% del capoluogo di Anbar è tornato sotto il controllo governativo: ieri sono caduti il centro della città – il quartiere Tamim – e una base dell’esercito. Dal cielo cadono le bombe statunitensi e russe e il segretario alla Difesa Usa Carter ha annunciato il dispiegamento di elicotteri e consiglieri, mentre l’Isis stringe la morsa su una città senza più cibo né carburante: la gente mangia i gatti dopo la chiusura del Ponte Palestina, unico accesso oggi in mano a Baghdad, e si scalda con la legna che trova perché di benzina per i generatori non ce n’è più.

Da settimane i civili assistono all’inasprirsi delle violenze islamiste: i miliziani hanno moltiplicato i pattugliamenti, cecchini controllano che nessuno fugga dalla città. La pena è esemplare, chi scappa è etichettato come apostata: flagellazioni, decapitazioni, distruzione della casa. I telefoni vengono requisiti e gli edifici centrali presi dai miliziani per garantirsi il controllo dei quartieri ancora occupati.

Intorno alla città aumentano le truppe irachene, sostenute da miliziani sunniti. Le milizie sciite, rispedite in ultima linea a maggio dal diktat Usa (errore che portò alla caduta della città), si mantengono a distanza pur partecipando alle operazioni. Ramadi ha paura di veder uscire un oppressore per farne entrare un altro. Per mesi i suoi residenti hanno chiesto armi a Baghdad per formare squadre di difesa contro l’avanzata Isis, ma il governo si è mosso con lentezza. I sunniti non si fidano, come non si fida il resto di Anbar, regione calda fin dall’occupazione Usa: qui si organizzò la resistenza e si rafforzò al Qaeda, qui partirono le proteste contro l’ex premier al-Maliki.

Ramadi è fondamentale: da come sarà gestita la sua liberazione si potrà capire di più del futuro dell’Iraq, un futuro di divisione o di unità: «Spero di vederci liberi dall’incubo di Daesh il prima possibile – dice un residente, Omar, alla Reuters – Ma cosa accadrà dopo potrebbe essere peggio. Faremo da capro espiatorio».